categoria: Distruzione creativa
All’alba del 2020 il mondo conobbe il Deep Tech (e il suo business)
Post di Misal G. Memeo, investment manager per VV3TT, fondo italiano di venture capital e corsista dell’ Executive MBA Ticinensis-EMBAT presso l’Università di Pavia –
Correva l’anno 2020, ed erano ormai passati circa 500 anni da quando Galileo Galilei provò a raccontare al mondo intero che la scienza ha la capacità di dare un razionale alle cose che succedono durante le nostre giornate, come il perché del giorno e della notte. In pochi fino ad oggi, si sono forse soffermati a ragionare su quanto scienza e società siano vicine.
È il 2020 e finalmente, nel mezzo di una crisi planetaria di carattere economico, sociale e umanitaria, la popolazione di questo affaticato pianeta pende letteralmente dalle labbra dagli eredi, fieri, di Galileo Galilei. Nel giro di poche ore, in molti hanno iniziato a ripetere, come un mantra, le parole che epidemiologici, infettivologi e virologi annunciavano con stile socratico nelle loro interviste.
Un aspetto fondamentale di questa crisi, su cui si dovrà necessariamente ragionare in modo collettivo, è proprio il ruolo che la scienza dovrebbe ricoprire nella società, nelle policy di governo e ancora di più nel settore produttivo del nostro Paese. Per evitare fraintendimenti, non ci si riferisce a complesse questioni filosofiche, ma ai vari contributi che la scienza può dare alle istituzioni e all’economia. Sicuramente un modus operandi, il già citato metodo sperimentale. In momenti di crisi o di emergenza è fondamentale la capacità di prendere decisioni sulla base di numeri, di fatti e di know-how.
Inoltre, le soluzioni che tutta la comunità che occupa il pianeta Terra si aspetta, provengono proprio dalle scienze “dure”: antivirali, vaccini, respiratori; ovvero un ben orchestrato miscuglio di chimica, big data analysis, ingegneria e scienze dei materiali. In un certo senso, stiamo sperimentando in tempo reale e non in un ambiente simulato, quanto la narrazione sul Deep Tech sia stata, in tempi passati, profetica o meno.
Per Deep Tech si intende l’insieme delle innovazioni tecnologiche di frontiera fondate sui ritrovati della ricerca di base. Di queste si è sempre profetizzato il forte impatto sulle persone, la società e l’economia. Si tratta in sostanza di investire in tecnologie ancora a livello accademico e di accorciare il time-to-market. Non è facile, non è neanche scontato. I monitor LCD ad esempio vedono la loro comparsa sotto forma di brevetto negli anni 70, per diventare di ampia diffusione solo dopo 30 anni. Gli investimenti in questo settore sono rischiosi e servono ingenti capitali su piani di sviluppo pluriennali. Prevedere ab initio l’impatto che una scoperta scientifica potrà avere in termini di mercato con così tanto anticipo è davvero arduo. Per intercettare tali opportunità servono persone con curriculum trasversali, radicati nella scienza e dotati di business acumen.
Se si guarda allo scenario nazionale, la comunità del Deep Tech è esigua. Il numero di start-up basate su scienza dura che hanno visto un’apprezzabile espansione di mercato è piccolo. Ci sono pochi esempi nel settore MedTech (tecnologie medicali come strumenti per la prevenzione o diagnostici), pochissimi in quello ingegneristico e ancora meno nel CleanTech (tecnologie che riducono l’impatto ambientale di processi produttivi). In questo grafico di un report di Boston Consulting Group viene riportato il numero di Deep Tech Companies in varie parti del mondo. In questa classifica, l’Italia non è la settima “potenza economica” del pianeta, ma si posiziona molto più in basso.
Questo settore è estremamente capital intensive. Capitali che attualmente non si vedono nel nostro Paese, se si pensa al ridotto numero di venture fund dedicati al technology transfer e quindi, per definizione, al Deep Tech. Questi hanno necessità di più capitale da investire e la possibilità di operare in una dimensione temporale più ampia rispetto agli standard del Venture Capital. Queste due condizioni sono fondamentali per consentire alle Tech Company in portfolio di entrare nel mercato invece di doversi dedicare ad estenuanti e continui round di finanziamento.
Nell’interessante report “Tech Scale Up Europe Report” del 2019 di Mind the Bridge, i dati italiani sono poco incoraggianti. Nella classifica per Paesi del rapporto scale up e capitale raccolto l’Italia si posiziona al decimo posto dopo le ovvie UK, Francia e Germania e la meno ovvia Spagna. Paesi piccoli in termini di popolazione e PIL, si posizionano meglio, come ad esempio la Svezia, la Svizzera e l’Irlanda. In termini assoluti invece, la somma dei capitali raccolti da start up tecnologiche nazionali ci posiziona al decimo posto. Essere il quarto Paese europeo per Pil e il decimo per volume di capitali raccolti in Deep Tech è indicativo della scarsa attenzione a questo settore. Scarsa attenzione che si rifletterà inevitabilmente su un divario ancora più ampio in termini di PIL e avanzamento tecnologico rispetto ad altri Paesi.
Nel DPCM “Rilancio”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19 maggio, si vedono alcuni segnali incoraggianti. Ci si riferisce all’istituzione di un fondo per il trasferimento tecnologico di ben 500 milioni di euro. Tale patrimonio verrà affidato ad una fondazione di diritto privato dell’ENEA che dovrà investire, per quanto è possibile interpretare dal citato decreto, proprio sui risultati della ricerca scientifica italiana. L’impatto sulle politiche di stimolo all’innovazione potrebbe essere rilevante. La fase di esecuzione di tale fondo potrebbe rappresentare una svolta significativa per il nostro Paese. Sarà tuttavia fondamentale per chi lo gestirà, affidarsi e collaborare con chi è già attivo in questo settore. Adottare “best practice” ed eventualmente supportare gli investimenti già sostenuti fino ad oggi, potrebbe assicurare un approccio market-oriented utile per non cadere nel fatale errore dei famosi “contributi” a pioggia, questa volta mascherati da venture capital.