categoria: Res Publica
Il grosso problema dell’Italia con lo Stato innovatore o imprenditore
Coautore di questo post è Filippo Barbera, professore di sociologia economica all’Università di Torino –
La nomina di Mariana Mazzucato a consigliere economico di Palazzo Chigi, a membro del CdA di Enel e, infine, a componente della task force presieduta da Vittorio Colao, ha suscitato una levata di scudi contro l’idea di “Stato innovatore” o “Stato imprenditore”.
Le critiche, riportate in articoli sui quotidiani o interventi sui social, hanno preso spunto da alcune interviste di Mazzucato, rilasciate in occasione delle nomine di cui sopra, evitano di confrontarsi con i contenuti della proposta per come espressa nei suoi lavori.
In questo intervento, proveremo a: (i) chiarire la proposta di Mazzucato rispetto alla critiche mosse, (ii) distinguere le critiche strumentali da quelle pertinenti e (iii) declinare le condizioni di applicabilità dell’idea di Stato innovatore/imprenditore al caso italiano.
Mariana Mazzucato è una “economista dell’innovazione”, notissima grazie al suo libro The Entrepreneurial State (tr. it. “Lo stato innovatore), cui ha fatto seguito “The Value of Everything” (tr. it. “Il valore di tutto”).
Le critiche di cui sopra identificano lo “Stato innovatore” con lo “Stato proprietario”, se non con lo “statalismo” e la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e delle imprese. Questa critica ha come obiettivo retorico quello di deviare l’attenzione dalla proposta di Mazzucato grazie a uno strawman (lo statalismo o la “sovietizzazione”). Una strategia retorica un po’ banale in verità, che non fa onore a chi la pratica.
La proposta di Mazzucato non ha nulla a cha fare con lo “Stato proprietario” e, anzi, potrebbe realizzarsi nella completa assenza della proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Nel contempo, si tratta di una proposta distinta da quella cara ai sostenitori dell’economia di mercato come “first best”, che vedono nell’intervento statale solo una possibile risposta ai “fallimenti del mercato” e/o un ruolo di market fixing attraverso regole antitrust e facilitazione della libera concorrenza.
Il perno della proposta di Mazzucato è la ridefinizione del concetto stesso di valore pubblico e di azione pubblica, sintetizzabile in cinque punti:
1) la crescita economica non ha solo un tasso, ma anche e soprattutto una direzione;
2) l’innovazione richiede investimenti risk-taking, sia privati che pubblici;
3) lo Stato ha un ruolo cruciale non solo come market-fixer, ma anche come market-maker;
4) le politiche pubbliche efficaci combinano obiettivi dall’alto con apprendimento e corresponsabilità dal basso;
5) la definizione e messa a terra delle “missioni” richiede la costruzione attiva del consenso.
L’idea di azione pubblica, trasversale a questi punti, è fondata su un stato networked, inteso come nodo di una rete a potere distribuito, che si pone come facilitatore e coordinatore tra attori, settori e risorse. In questa accezione, fondamentale per l’implementazione di un approccio mission-oriented, è la necessità di rafforzare lo sviluppo di capacità e di competenze all’interno dello Stato, in modo tale che esso possa svolgere efficacemente un ruolo di coordinamento per affrontare le sfide della società attraverso l’innovazione. Appaltare solo alla “razionalità” delle grandi corporation la definizione e la risoluzione delle sfide che le società devono affrontare, significa affidare al mercato – e solo a quello – la definizione di obiettivi collettivi.
Per riconsiderare il ruolo imprenditoriale dello Stato, la studiosa si rifà alla distinzione tra rischio e incertezza. Le situazioni di incertezza sono quelle in cui non solo l’esito delle azioni è sconosciuto, ma non sono neppure note le probabilità che si verifichi un certo evento, piuttosto che un altro. Gli investitori privati tendono a rifuggire questo tipo di scenari, che caratterizzano in particolare i progetti alla frontiera della ricerca scientifica. Qui ha ragion d’essere la funzione imprenditoriale dello Stato: un ruolo chiave nel finanziamento di progetti di ricerca e innovazione lungimiranti, dal momento del loro avvio fino a quello della commercializzazione dei risultati.
Questo ruolo assolve due compiti cruciali: mettere a disposizione degli investitori un “capitale paziente” e promuovere partnership innovative tra ricercatori, università, laboratori pubblici e imprese, orientando gli interessi particolari in direzioni compatibili con il bene pubblico. Lo Stato imprenditoriale, in altri termini, genera nuovi mercati, specialmente laddove sono richiesti forti investimenti di capitali in situazioni di incertezza radicale. Uno Stato di questo tipo ha soprattutto il ruolo di indicare l’orizzonte di obiettivi collettivi e ambiziosi, rifiutando l’idea che il pubblico stabilisca le regole del gioco mentre le imprese giocano la loro partita e la società si esprima solo attraverso la sovranità del consumatore. Ma rifiutando anche l’idea che il consenso politico e l’intervento amministrativo seguano strade distinte e separate o che l’uno possa riferirsi all’altro in modo del tutto strumentale. Nell’affrontare l’azione mission-oriented, politica, mercato, società e amministrazione vincono o perdono insieme.
Giuste le cose dette, risulta ben chiaro che le critiche di “sovietizzazione” siano del tutto strumentali e, in verità, non poco imbarazzanti per chi le esprime.
Più circostanziate, al contrario, sono le critiche di chi ritiene difficile, se non impossibile o controproducente, l’applicazione dell’idea al caso italiano. Ciò in quanto la proposta ha funzionato negli States, con una “cultura” della PA ben diversa, con uno “Stato acquirente” di nuove tecnologie, con appalti pubblici innovativi e finanziamento della ricerca e scienza “di base”. In Italia ciò sarebbe impossibile, o quasi: riformare la nostra PA per renderla imprenditoriale richiederebbe una politica forte e stabile, una classe dirigente lungimirante e competente, una capacità di nutrire una vera riforma della PA senza servire interessi corporativi.
Mancando queste condizioni, l’unica strada possibile è quella di ridurre il range delle attività dove il “pubblico” si interpone al privato, obbligando quindi la PA a fare poche cose e bene (salute/welfare, sicurezza/giustizia, scuola, infrastrutture), portandola a ragionare sull’efficacia e non sui formalismi, e accettando che lo Stato possa comprare beni e servizi dal privato e non debba per forza produrli. Il punto di forza di questa posizione è che il “cancro” del Paese non è solo o tanto uno statalismo farraginoso, ma il mix tra questo e un corporativismo privato anti-mercato e che, di conseguenza, bisogna rendere i mercati realmente aperti e contendibili. A questo punto le inefficienze, sia del pubblico che del privato, emergerebbero: anche il familismo e il management “decotto” delle imprese private potrebbe cambiare non per decreto o per intervento statale, ma con la disciplina di mercato.
Questa proposta, ben diversa dalle critiche di “sovietizzazione”, ha però due importanti limiti. Il primo, generale, è di non considerare che il ruolo dello “Stato innovatore” non si esaurisce nella “buona ed efficiente” amministrazione pubblica, ma chiama a gran voce il ruolo della politica, intesa come capacità di una collettività di darsi obiettivi ambiziosi e pubblici rispetto alla soluzione di wicked problems. Go to moon, fight the cancer, stop climate change fight poverty: problemi che rimandano a sfide complesse, multidimensionali, che intrecciano più livelli di scala e che non hanno soluzioni lineari e semplici. Problemi che coinvolgono interessi contrastanti e giochi a somma negativa dove – almeno nel breve periodo – si generano vincenti e perdenti. Soluzioni, quindi, non gestibili attraverso un approccio tecnocratico, ma che richiedono la costruzione del consenso politico e la definizione condivisa di orizzonti temporali di lungo periodo. Quando questi obiettivi, come spesso è, implicano incertezza radicale e non solo “rischio”, l’hero entrepreneur e gli investimenti privati hanno bisogno che l’afflato della politica si traduca in una azione pubblica networked che mobiliti gli sforzi, le risorse e i settori economici nel loro insieme, mettendo a valore la diversità e la complementarietà come precondizione della capacità innovativa di una società.
La seconda debolezza delle critiche “pertinenti” e non strumentali è l’eccessiva fiducia nella capacità della “disciplina di mercato” di eliminare le rendite e i corporativismi. Il caso italiano mostra proprio che dagli anni ‘90, quando la mano pubblica, sia per il cambio ideologico seguente alla stagione Reagan/Thatcher, sia per contingenti motivi di bilancio pubblico, è progressivamente andata a ridimensionarsi con la cessione delle grandi aziende statali e la liquidazione dell’IRI, il sistema produttivo italiano non ha vissuto una stagione di fioritura, bensì ha ancora di più accentuato i tratti negativi di un sistema capitalistico di tarda industrializzazione con pesanti sintomi di cronyism (clientelismo): sottodimensionamento delle imprese, predominanza del fattore lavoro sul fattore capitale, scarsi investimenti in ricerca ed innovazione, predilezione per settori non-tradable protetti dalla concorrenza estera, dualismo fra imprese che lavorano sul mercato interno e quelle rivolte all’esportazione sui mercati internazionali, capitalismo familiare e relazionale.
Lo Stato in questi anni non è stato quindi “nemico” dell’impresa, come in tanti amano dire con analisi un po’ superficiali e, in fondo, populiste, ma è stato garante della conservazione di questo tipo di capitalismo, mantenendo con la sua burocrazia, difficoltà di accesso ai servizi, leggi e regolamenti spesso cervellotici, lentezza della giustizia, asprezza fiscale di alcune imposte e generosità unica al mondo in altre (si pensi all’imposta di successione), vantaggi di posizione e barriere all’ingresso e allo sviluppo, compensando poi un po’ tutte le imprese con una repressione del costo del costo del lavoro ed una liberalizzazione normativa, anch’essa comunque farraginosa e complicata, del suo utilizzo.
La controprova è proprio l’inesistente mobilità sociale del nostro paese, uno delle peggiori fra tutti quelli dell’OECD.
In realtà quindi lo stato imprenditore della Mazzucato sarebbe il completo rovesciamento di questa politica: da garante dell’immobilismo e del “chi ha ha, chi non ha si arrangi” ad un partner moderno che agevoli la dinamicità imprenditoriale e l’innovazione nella nostra economia. Più che l’inesistente pericolo di statalismo sembra questo il motivo dietro a tante opposizioni preconcette.
Speriamo di sbagliarci.
Twitter @FilBarbera @AleGuerani