Barba e capelli al Governo sul Decreto Liquidità. Il pronti via di Bonomi

scritto da il 22 Aprile 2020

L’autore di questo post è Marco Gallone, managing director di Kuspide Investments SCF –

Ha cominciato con le parole giuste Carlo Bonomi, appena designato alla presidenza di Confindustria. Di questi tempi, non capita spesso di ascoltare parole chiare, ragionamenti che vanno al sodo e proposte concrete, che risolvano problemi altrettanto concreti.

Il Decreto Liquidità, ad esempio, lo ha… liquidato in quattro e quattr’otto dicendo:
“La strada di far indebitare le imprese non è quella giusta. L’accesso alla liquidità non è immediato. Occorre riaprire la produzione perché essa solo dà reddito e lavoro, non certo lo Stato come molti vorrebbero, dimenticando che non ha le risorse, e farlo evitando una nuova ondata di contagio che ci porterebbe a nuove misure di chiusura ancora più disastrose”.

Come non essere d’accordo?

“La strada di far indebitare le imprese non è quella giusta”. Infatti! Perché sappiamo purtroppo che i prestiti debbono essere restituiti, con interessi, commissioni e oneri vari. E lo dovranno essere anche quelli ottenuti tramite il Decreto Liquidità, nonostante (si noti bene) servano per rimpiazzare ricavi persi definitivamente, a seguito del lockdown. Se, quindi, contraggo oggi un debito per coprire costi che avrei dovuto coprire con ricavi che non arriveranno più, devo sperare che i ricavi futuri saranno tali da consentirmi non solo di coprire i costi futuri correlativi a quei ricavi, ma anche di rimborsare il debito di oggi. È però una speranza molto labile perché, in un quadro in cui il ritorno alla normalità non potrà che avvenire gradualmente, l’ipotesi più realistica è che una parte, se non la totalità, delle perdite subìte dalle imprese colpite dal Covid-19 non sarà più recuperabile. Chi si accollerà queste perdite? O il settore privato o quello pubblico. Se però lo facesse il primo, ha messo in guardia Draghi sul Financial Times del mese scorso, l’economia non si solleverebbe più, per cui è necessario che lo faccia il settore pubblico. E, qualora i singoli Stati non siano in grado di sobbarcarsi un tale peso, dovrà intervenire la BCE.

Quindi, in buona sostanza, ben vengano dei provvedimenti che favoriscono l’afflusso di risorse dal sistema bancario alle imprese ma non bastano! Occorre introdurre ulteriori misure che consentano alle imprese di recuperare ricavi persi per sempre e livelli di indebitamento prossimi a quelli antecedenti al Covid19.

A questi fini, segnalo tre misure complementari di politica economica elaborate in uno studio riportato sul sito della Banca d’Italia, al quale rinvio:

1. nel breve termine: trasferimenti diretti alle imprese (ossia contributi una tantum senza vincolo di restituzione) da parte del Governo per compensare la perdita di fatturato e coprire le spese operative;

2. nel medio termine: creazione di un veicolo con capitale pubblico per la ristrutturazione di debiti delle imprese medio-grandi,

3. nel medio termine: introduzione di incentivi fiscali per la ricapitalizzazione delle imprese.

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Nel frattempo, una cosa lo Stato potrebbe e dovrebbe far subito. E lo ha detto chiaro e tondo Bonomi al ministro Patuanelli, nel corso dell’ultima puntata di Che tempo che fa: pagare i debiti (per rimborsi di tributi, acquisti di beni e servizi, ecc.) che ha nei confronti di imprese e lavoratori autonomi e consentire loro, nella maniera più ampia possibile, di effettuare la compensazione tra crediti e debiti.

Non è la cosa più di buon senso di questo mondo, da non aspettare nemmeno di farsi suggerire?

Anche perché sarebbe di immediata attuazione mentre con i prestiti del Decreto Liquidità, ha puntualizzato Bonomi, “l’accesso alla liquidità non è immediato”. Da lunedì scorso, è possibile presentare agli sportelli bancari le richieste per i microprestiti fino a 25 mila euro. Per questi, garantiti al 100% dallo Stato, i tempi non dovrebbero essere lunghi ma occorre vedere se i sistemi informatici delle banche reggeranno l’onda d’urto di una valanga di domande (gli aventi diritto sono stimati in circa 2,5 milioni di soggetti).

Ma per tutti gli altri prestiti, quelli con garanzia pubblica dal 70% al 90%, occorrerà attendere l’istruttoria della banca, che si prenderà una parte del rischio insieme allo Stato. Dopodiché, se l’istruttoria avrà esito positivo (e non è scontato), la domanda sarà inoltrata agli enti concedenti la garanzia (Fondo Centrale di Garanzia e Sace), che a loro volta dovranno processarla; il che apre una grossa incognita su un ulteriore allungamento dei tempi: il sito del Fondo di Garanzia, come era successo per l’INPS con i bonus da 600 euro, è andato in tilt il primo giorno in cui aveva messo on line i moduli per le richieste dei microprestiti; la Sace, con strutture e competenze dedicate ad operare solo con grandi imprese esportatrici, si troverà catapultata a gestire volumi di richieste stimati pari a 20 volte quelle correnti.

In questa battaglia contro il “secondo virus”, quello del collasso economico, il tempo è invece un fattore-chiave, perché ormai non si contano più le aziende, i professionisti e gli artigiani che sono arrivati alla canna del gas.

Ma, in ogni caso, non facciamoci troppe illusioni, perché se lo Stato non riesce a pagare i suoi debiti verso i privati, ciò significa – e anche questo Bonomi non lo manda a dire  che “lo Stato non ha le risorse”. E infatti, lo avevamo capito subito che la “potenza di fuoco da 400 miliardi” trionfalmente annunciata dal Presidente del Consiglio non esiste!

A parte il fatto che la cifra scritta sul decreto è 200 e non 400 miliardi, in ogni caso questa “potenza di fuoco” non corrisponde a uno stanziamento effettivo di risorse, bensì alla stima (massima) dei prestiti che, secondo il governo, potranno essere attivati dal sistema bancario tramite le garanzie pubbliche. Il testo in questione, infatti, è stato licenziato  come si dice in gergo – praticamente “a saldo zero”: gli unici stanziamenti previsti sono il miliardo in dotazione del fondo per la concessione di garanzie Sace-Cdp e i 229 milioni in più, rispetto a 1,5 miliardi già stanziati con il decreto Cura Italia, per il Fondo Centrale di garanzia per le PMI.

Tanto per avere un’idea della “potenza di fuoco” ad oggi realmente attivabile, si tenga presente che il Fondo di Garanzia delle PMI ha deliberato – per i micro-prestiti fino a 25 mila euro – una percentuale di accantonamento a titolo di coefficiente di rischio del 30%, cioè all’incirca 1 euro per ogni 3 euro di finanziamento. Se, pertanto, le risorse a disposizione ammontano a 1,7 miliardi, ne potrà garantire solo 5. Assumendo pari a 15 mila euro l’importo medio dei prestiti, si potranno soddisfare 340/350 mila operazioni su una platea di potenziali aventi diritto stimata nell’ordine di 2,5 milioni di soggetti, quindi nemmeno il 15% del totale.

Bisognerà attendere un nuovo decreto, che dovrebbe essere approvato nei prossimi giorni, per sapere se e quanto i plafond verranno aumentati.

Ma al di là di qualsiasi e pur necessario sostegno di carattere finanziario, una cosa bisogna fare, conclude Bonomi: “Occorre riaprire la produzione perché essa solo dà reddito e lavoro… e farlo evitando una nuova ondata di contagio che ci porterebbe a nuove misure di chiusura ancora più disastrose”.

Parole sacrosante.

Solo la produzione dà reddito e lavoro “e non lo Stato, come molti vorrebbero”. A dispetto di una cultura antindustriale che, purtroppo, non è mai venuta meno nel nostro Paese, occorre rimettere l’impresa al centro del processo di sviluppo e liberarla dai tanti luoghi comuni che l’hanno penalizzata impedendole di esprimere tutte le sue potenzialità. La drammaticità del momento che stiamo vivendo offre pertanto una grande opportunità in questa direzione.
È necessario riaprire, ma con un metodo, che invece è quello che è mancato; altrimenti, una nuova ondata di contagio, ammonisce Bonomi, “ci porterebbe a nuove misure di chiusura ancora più disastrose”.

Ancora più disastrose”, proprio così, perché le imprese si debbono chiudere e riaprire non per zone geografiche o anacronistici codici Ateco ma per aderenza a individuati processi e modelli organizzativi. Non bastano i dati top-down da indagini statistiche, pur utilissimi; servono dati bottom-up, raccolti sul campo.

Per fare tutto questo serve un piano operativo per la messa in sicurezza di fabbriche, scuole, uffici e negozi, che prescriva in modo puntuale e circostanziato misure precauzionali mirate che tutti noi dovremo rispettare, in modo da poter ripartire il prima possibile, anche convivendo con il virus.

Ci riusciranno le 15 task force con oltre 450 esperti nominate dal governo insieme alle altre 30 a livello locale? Ce lo auguriamo vivamente perché se aspettiamo che la pandemia sia dichiarata ufficialmente finita per ripartire, siamo fritti! Un altro periodo prolungato di lockdown sarebbe insostenibile, sia sul piano economico che su quello sociale.

Twitter @MarcoGallone_