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Fase 2, i primi passi (ma quelli giusti) verso la normalità
Post di Francesco Furno, Ph.D Economics candidate New York University, Nicola Marino, consulente Health Catalyst, co-fondatore INTECH, Enrico Santus, Bayer ed MIT –
L’ingresso nella Fase 2 sta diventando non solo un imperativo per dare una boccata d’aria all’economia, ma anche un mantra da recitare davanti alle telecamere per rassicurare una popolazione esausta dal lungo lockdown. Il virus non ha infettato solo centinaia di migliaia (forse milioni) di cittadini, ma anche la maggior parte delle imprese, causando un danno economico senza precedenti. Negli Stati Uniti, dove licenziare e’ “più facile”, le richieste di disoccupazione sono schizzate a livelli mai visti in precedenza, e molti analisti stimano che il tasso di disoccupazione oltreoceano potrebbe raggiungere presto il 30%. La politica, finora, ha risposto come ha potuto. L’improvvisa evoluzione dell’epidemia insieme all’assenza di strumenti per gestire l’emergenza ha messo in luce le debolezze del sistema (per esempio la dipendenza dall’estero per i dispositivi di protezione individuale), facendo scricchiolare la stessa tenuta sociale.
Ma uscire da questa situazione si può. E si deve. Visto anche lo studio dell’Università di Northwestern e nell’Università di Berlino, il quale dimostra tramite simulazioni matematiche come il lockdown sia economicamente insostenibile qualora la produzione del vaccino non sia imminente. E’ fondamentale però farlo in maniera ordinata ed intelligente, limitando il rischio di provocare seconde o terze ondate, come accaduto – sebbene in numeri contenuti – a Hong Kong e Singapore. Stabilito che una recessione ci sarà anche qualora venisse riaperta l’economia, dato che gli individui ridurranno consumi e offerta di lavoro nel tentativo di evitare l’infezione, l’impatto del danno causato dal coronavirus sull’economia dipenderà dalla capacità del governo di rimettere aziende e cittadini in grado di tornare a produrre, senza riattivare l’epidemia. Non e’ un compito semplice.
Secondo Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale e professore emerito di economia al MIT, il modo migliore di procedere da parte del Governo è quello di contrastare l’epidemia, con strumenti sanitari e non (come la quarantena), e allo stesso tempo fornire a imprese e cittadini tutta l’assistenza necessaria per superare le difficoltà (alimenti, alloggio, farmaci, etc.), esattamente come se si fosse stati colpiti da un forte terremoto o uragano, eventualmente ripensando ad una riduzione della tassazione nel post-pandemia per consentire di rientrare delle spese sostenute in questo periodo eccezionale. Questo eviterebbe che il bacino del 14% della popolazione che attualmente vive in uno stato di povertà in Italia (dati Ocse) si allarghi fino al 27% nei prossimi mesi. A supporto di tale approccio si è esposto qualche settimana fa Jason Furman, professore di economia ad Harvard e consigliere economico di Obama durante la crisi finanziaria del 2008.
Oltre a questa iniezione di denaro atta a garantire la sussistenza di famiglie e del tessuto produttivo, il Governo dovrà incentivare tutte quelle attività produttive che permettono all’economia di respirare senza però alimentare la propagazione del virus. Questo include la riapertura di negozi a basso grado di assembramenti. Inoltre, sarà necessario stabilizzare la promozione del telelavoro, consentendo alle aziende di tornare all’attività produttiva, riducendo nel contempo le interazioni tra individui. A tal proposito, Tito Boeri e Alessandro Caiumi stimano che il 24% delle professioni possa essere svolto dalla propria abitazione. L’erogazione di finanziamenti potrà pertanto essere destinata all’acquisto di apparecchiature e alla formazione, considerato anche che l’analfabetismo digitale in Italia è il terzo tra i 29 paesi analizzati dall’OCSE (peggio di noi solo Cile e Turchia). A una tale rivoluzione non devono opporsi le aziende: se e’ vero che all’inizio il lavoro a distanza può causare un calo della produttività, diversi studi hanno dimostrato che nel medio periodo il telelavoro può invece indurre ad un incremento dello stesso. Si consideri, sebbene non direttamente generalizzabile, uno studio del 2015, diretto da Nicholas Bloom dell’Università di Stanford, il quale evidenzia che la produttività di una compagnia di viaggi cinese è aumentata dal 13% al 22% quando i lavoratori sono passati al telelavoro, principalmente grazie all’aumento dei minuti effettivamente lavorati.
Un ragionamento simile (e relativi finanziamenti) dovrà essere esteso alla didattica, che potrà essere trasferita online – come accaduto nelle ultime settimane in numerose università americane. Nell’arco di 48 ore, tra il 9 e l’11 Marzo, la New York University ha completamente spostato i suoi corsi e meeting online, sfruttando piattaforme di videoconferenza a cui gli studenti possono accedere da ogni parte del mondo. Questo offre innumerevoli benefici: l’offerta didattica online diviene più ricca e competitiva, e nuove realtà educative potranno emergere per rendere più stimolanti i percorsi formativi. Altrimenti, il costo in termini di capitale umano risultante dalla paralisi totale del sistema educativo sarà molto alto nel lungo periodo.
Ma il punto cruciale sarà nel ritorno alla mobilità cittadina. L’analisi di un gruppo di ricercatori di Duke, Chicago, e Minnesota ha dimostrato che il lockdown in Fase 1 evita esiti catastrofici, scongiurando il collasso del sistema sanitario e l’aumento esponenziale dei decessi. Un recente lavoro di un gruppo di economisti della New York University a cui appartiene anche il noto Thomas Philippon evidenzia l’abilità limitata degli individui di comprendere gli effetti delle proprie scelte sulla salute altrui e suggerisce pertanto un ruolo chiave dello Stato, che attui politiche per ridurre le situazioni a rischio (per esempio educando all’igiene e all’uso di tecniche e dispositivi di protezione, così come organizzando l’accesso a negozi e ristoranti) e per preservare la capacità del sistema sanitario di salvare vite.
Nella Fase 2, però, al fine di evitare un crollo verticale di tutta l’economia, i cittadini dovranno tornare a qualche forma di vita sociale, per quanto limitata. Ciò è evidente nella letteratura citata, che confronta le ripercussioni economiche della riapertura secondo politiche del “non fare nulla” (in cui l’economia riapre senza che nessuno entri in quarantena) con politiche di “quarantena generalizzata” (ovvero, gli individui sintomatici vengono messi in quarantena, mentre una parte degli asintomatici viene messa in quarantena senza che venga effettuato alcun test) e politiche di “quarantena selettiva” (test sui sintomatici e test a campione casuali sugli asintomatici). Quest’ultima risulta, a parità di decessi totali, indurre una minore contrazione del PIL.
La quarantena generalizzata (linea rossa) risulta in una significativa riduzione del PIL rispetto al non fare nulla (linea nera), ma in un numero di decessi quattro volte inferiore dovuto al fatto che il sistema sanitario mantiene la sua capacità di curare gli infetti, cosa che non avviene altrimenti perché i contagi arriverebbero tutti in una volta senza essere spalmati nel tempo (linea nera figura). La quarantena selettiva (linea blu) risulta negli stessi decessi della quarantena generalizzata, ma in un crollo minore della produzione.
Un alleato fondamentale in questa battaglia diventa pertanto il testing esteso che permette una quarantena selettiva. Un recente sondaggio realizzato dall’Università di Chicago su 40 economisti di fama mondiale ha dimostrato che il 93% di loro concorda con la necessità di aumentare la capacità di testing per impedire nuovi focolai epidemici e al contempo reintrodurre in attività’ individui che sono a basso o nullo rischio. Ma esistono dei problemi anche legati al testing. Il premio Nobel per l’economia ed ex capo economista della Banca Mondiale Paul Romer ha sottolineato che i test, ed in particolare i test sierologici di immunoconversione dove si verifica la presenza di specifici anticorpi che evidenziano lo stato di risoluzione della patologia ed immunità da essa, non sono strumenti perfetti, ma proni a un errore che può essere di due tipi: i falsi positivi, in cui individui non-infetti vengono classificati come infetti e messi in quarantena; i falsi negativi, in cui individui infetti vengono diagnosticati sani e diventano pertanto vettori del virus.
Mentre la prima tipologia di errore può avere un impatto negativo sull’economia, la seconda tipologia può’ essere alla base della ripartenza dell’epidemia – e gli attuali test sembrano soffrire soprattutto della seconda tipologia di errore, come denunciato qualche giorno fa sul New York Times da Harlan Krumholz, professore di medicina a Yale. Secondo risultati preliminari le differenti tipologie di test di laboratorio per la ricerca dell’RNA virale via PCR (tampone nasale, tampone faringeo, test dell’espettorato, lavaggio broncoalveolare) falliscono nell’identificare individui infetti il 30% delle volte (ndr. nessun test possiede una precisione del 100%). Nonostante ciò, Paul Romer dimostra matematicamente che una quarantena selettiva basata su un test impreciso sia comunque meglio di una quarantena generalizzata, e che il rischio di falsi negativi potrebbe essere mitigato semplicemente effettuando un maggior numero di test.
Nel suo lavoro, Paul Romer ipotizza di testare su base giornaliera circa il 7% della popolazione. In Italia, questo si tradurrebbe in 4,2 milioni di test al giorno. Una cifra, anche in ottica di spesa, relativamente modesta rispetto ai benefici che ne deriverebbero. Tuttavia, sarebbe necessario un significativo aumento dell’approvvigionamento di test, dato che al momento in Italia ne vengono effettuati circa 50 mila al giorno. Questo non sembra plausibile nel breve periodo. Si apre pertanto il bisogno di adottare una strategia non solo di quarantena selettiva ma anche di testing selettivo, atto a massimizzare l’efficacia dei tamponi. A questo scopo si possono utilizzare sistemi statistici o di intelligenza artificiale per sfruttare dati sugli spostamenti e le interazioni sociali degli individui con lo scopo di identificare quelli a più alto rischio (per se stessi e per chi li circonda) prima ancora di eseguire il test, e concentrare su quest’ultimi le risorse disponibili.
È anche importante capire se sia necessario ri-sottoporre a test coloro che sono guariti dal virus. In un’intervista al New York Times, Angela Rasmussen, una virologa di Columbia University, sottolinea come non sia affatto chiaro alla comunità scientifica se i guariti siano diventati immuni, e, in caso affermativo, per quanto tempo possa durare l’immunità. Data l’elevata incertezza, sembra ragionevole operare sull’ipotesi che i guariti dal Covid-19 possano essere infettati nuovamente (eventualmente con minor rischio), da qui la necessità che vengano testati e monitorati esattamente come tutti gli altri. Il mancato isolamento degli infetti sembra infatti essere l’elemento di maggior rischio secondo tutti gli esperti.
È infine legittimo chiedersi se far ripartire l’economia possa – al netto delle vittime da infezione – salvare delle vite umane. La narrazione collettiva vede in una contrazione dell’attività’ economica un aumento della mortalità’, ma come riassunto brillantemente in un articolo comparso circa un anno fa su Nature, i dati non sembrano supportare totalmente questa ipotesi. Sembrerebbe che i tassi di mortalità si riducano durante una crisi economica e questo potrebbe essere spiegato dal fatto che, una riduzione dell’attività’ economica porta a una riduzione degli incidenti sul lavoro, degli incidenti stradali, e a una riduzione dell’inquinamento che attenua problemi cardiovascolari e respiratori. Christopher Rum, professore di economia e politiche pubbliche all’Università della Virginia, stima che negli Stati Uniti un aumento del tasso di disoccupazione è associato a una riduzione del tasso di mortalità dell’1,7% durante le recessioni più severe, come quella del 2009. Lo stesso autore suggerisce anche che il cambiamento nei comportamenti delle persone indotto da una recessione porti a una riduzione sia dell’obesità sia della percentuale di fumatori, che a loro volta contribuirebbero a ridurre il tasso di mortalità durante una recessione.
Tuttavia, il fatto che il tasso di mortalità nella popolazione nel complesso si riduca in media durante una recessione non significa che non ci siano segmenti della popolazione particolarmente colpiti. La perdita del lavoro aumenta la probabilità di sviluppare patologie quali ipertensione, diabete e artrite. La sociologa Kate Strully dell’Università di Albany nello stato di New York stima che la perdita del lavoro aumenta le probabilità di un peggioramento dello stato di salute del 54% e la probabilità che un individuo sano sviluppi una patologia dell’83%. Inoltre, perdere il lavoro porta a un peggioramento della salute mentale, che si manifesta ad esempio in un maggior numero di suicidi. Un team di studiosi tra cui David Stuckler dell’Università Bocconi di Milano ha stimato che la crisi finanziaria del 2009 ha prodotto circa 5000 suicidi, mentre una stima simile per la Grecia ha mostrato un aumento dei suicidi di circa il 20%. Inoltre, durante una crisi economica vengono tagliate quelle spese ritenute superflue, anche nel settore sanitario, questo ha portato in Grecia a una ricomparsa della malaria e a un raddoppio delle infezioni HIV.
Inoltre, bisogna considerare anche come questa crisi economica sia fondamentalmente diversa dalle altre. L’impatto economico nel breve periodo è di un ordine di grandezza maggiore sia di quello della crisi finanziaria del 2009 sia della Grande Depressione degli anni 30, come lascia presagire l’impennata mai verificatasi precedentemente delle richieste di sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti a metà marzo. Questo significa che gli effetti sulla salute pubblica stimati dalle crisi economiche del passato potrebbero non applicarsi in questa circostanza. Inoltre, gli ospedali sono saturi e i pazienti non infetti da coronavirus che necessitano di cure vengono messi in lista d’attesa, persino quando si tratta di cancro e chemioterapia. Sembra quindi necessario potenziare il sistema sanitario, e questo è impossibile senza riattivare almeno parte dell’economia.
Per quanto detto, la strada più importante per fornire un sostanziale contributo al sistema sanitario ed economico del Paese passa dall’adozione delle tecnologie in sanità. Oltre allo sviluppo ed implementazione di applicazioni di tracciamento della popolazione potenzialmente affetta, che come definito dallo studio dell’Università di Oxford pubblicato sulla rivista scientifica Science si presenta come unica soluzione per rendere più efficace ed efficiente il tracciamento di prossimità rispetto alle metodiche tradizionali in caso di infezioni virali ad alto tasso di replicazione, molte altre sono le tecnologie di necessario utilizzo. In particolare, ciò che concerne una costante analisi dello stato di salute a distanza. Non solo i cittadini ma anche per colore che lavoro in prima linea. È ciò che è stato fatto da Stanford in partnership con Apple, i quali hanno sviluppato un’app per gli operatori, sanitari, vigili del fuoco e polizia, con il fine di fornire informazioni altamente attendibili riguardo la patologia, monitorare lo stato di salute attraverso questionari e, se necessario, prenotare test di laboratorio.
Ed è proprio l’adozione del teleconsulto medico una delle più importanti armi adottate in tutto il globo per garantire la fruizione dei servizi sanitari. Ray Dorsey, direttore del Center for Health and Technology presso la University of Rochester Medical Center, riporta che nelle sole ultime due settimane le consulenze mediche online sono aumentate negli USA di dieci volte. Yanwu Xu, principal health architect di Baidu Health e membro del gruppo di consulenza tecnica sulla salute digitale dell’OMS, ha dichiarato al The Lancet che ogni medico può oggi fornire assistenza a distanza sino ad un centinaio di pazienti al giorno, un aumento significativo rispetto alle metodiche “tradizionali”. È chiaro che la qualità dell’assistenza sanitaria che vede il rapporto diretto medico paziente possa fornire migliori risultati, ma in uno stato di lockdown non vi è migliore sistema di monitoraggio della salute del proprio paziente.
In Italia, come riportato dall’articolo di The Lancet sopracitato, sebbene tutte e 20 le regioni abbiano implementato le linee guida nazionali per la telemedicina a partire dal 2018, si è stati in gran parte colti di sorpresa dall’esplosione della domanda digitale. Molti ospedali italiani non dispongono dell’hardware e delle risorse tecniche necessarie. Mancanza di hardware, capacità di connessione di banda insufficienti su tutto il territorio nazionale, considerando anche la conformazione demografica e geografica del nostro Paese (ndr. quindi l’importanza della medicina territoriale). Ma anche, ed in particolare, alfabetizzazione digitale insufficiente per clinici e pazienti. Il Covid-19 sta mostrando, in ogni parte nel mondo, quanto sia importante adottare sistemi digitali in sanità, comprenderne pregi e difetti ci permetterà di tornare presto alla normalità.
Ripartire sembra l’unica soluzione. Semplicemente bisogna stare attenti a non fare un passo avanti e due indietro.
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