categoria: Vicolo corto
Cosa si potrebbe fare quando il contagio si sarà fermato
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Da quasi un mese ho scritto della curiosa sindrome di negazione italiana (e non solo) di una delle poche certezze del nostro futuro incerto: la dinamica dei contagi. Tant’è vero che, nonostante il Coronavirus sia stato descritto come un “cigno nero”, l’autore del suo libro si dissocia da questa narrazione. Mi ero ripromesso di non scriverne più, per due ragioni.
La prima è che non reggo più le opinioni di statistici dilettanti, apprendisti virologi e opinionisti in pigiama. Temo di far parte di quest’ultima categoria, ma almeno non vorrei essere accettato come il Groucho Marx del loro club più “virale”: quello dei “maître à penser” carini e coccolosi. Nelle loro truppe si sono arruolati personaggi che fino a ieri si preoccupavano solo di vivere a sbafo nel “demi-monde” che li considera (si fa per dire). Costretti a terra, non potendo più inviare selfie dai loro “tunnel del divertimento”, devono aver pensato che il mondo fosse ansioso di seguire i loro esercizi ginnici, le loro ricette di cucina, le loro videochat con amici “belli, belli, belli in modo assurdo”. Ma soprattutto devono essersi sentiti chiamare (non si sa da chi) alla responsabilità di “persone di un certo livello”, e quindi a dispensare opinioni gravi (ma non serie) in comode dosi monouso da social media, pronte a essere “sharate”, “taggate” e “likate” dai loro piccoli fans.
La seconda è che mi sembrava di aver scritto tutto ciò che c’era da dire, e quindi non avrei fatto altro che ripetermi. All’inizio di marzo eravamo storditi dal susseguirsi degli eventi, soprattutto dal numero spaventoso dei decessi: uno shock che nessuno di noi ha mai provato. Prevaleva dunque una visione offuscata degli errori, pur inevitabili in una tragedia di queste proporzioni. Mi è sembrato che mancasse una narrazione rispettosa del dolore ma onesta, quindi intermedia fra i toni devoti dell’informazione istituzionale e quelli schiumanti di bava dell’opposizione, che ha dato uno spettacolo indecoroso e senza eguali nel mondo, perfino rispetto agli Stati Uniti dove infuria una campagna elettorale e sono stati commessi errori più gravi. Dopo un po’ si è però incominciato a mettere a fuoco ciò che è andato storto: i ritardi e la confusione dei primi giorni, le negligenze degli ospedali, la sottovalutazione del modello coreano. Si è perfino iniziato a dubitare delle competenze dell’OMS, per esempio sull’uso delle mascherine. Sull’inadeguatezza dell’OMS eravamo già stati avvertiti da Bill Gates. Finiremo per arrivare a conclusioni analoghe anche su altre organizzazioni internazionali: forse unendo i punti dei loro fallimenti potremo un giorno ricavarne il (di)segno del declino dell’occidente.
La strada che porta a domani
Non c’è bisogno di ribadire cose già scritte e assodate. Tuttavia, fra i molti messaggi ricevuti da persone che concordavano con le mie considerazioni, ne ho ricevuto uno da una persona molto vicina al rappresentante di una delle istituzioni che ho osato criticare, che mi ha scritto: “candidati tu alle prossime elezioni!”. Questo suo sarcasmo mi ha un po’ sorpreso, perché le mie osservazioni erano non solo garbate e lecite, ma anche utili. Tutti sbagliamo, sia chiaro, ma gli errori potrebbero (e forse dovrebbero) servire a qualcosa. Si potrebbe rispondere che è facile criticare senza essere costruttivi. Può darsi. Ma quando c’è un problema di ritardi l’unica soluzione è la macchina del tempo. Tuttalpiù avrei potuto scrivere un po’ prima: non sarebbe comunque servito a nulla, ma almeno ci avrei provato.
È per questo che ho deciso di completare un ragionamento che avevo lasciato in sospeso, cioè cosa si potrebbe fare quando il contagio si sarà fermato. È un problema che inizia a essere chiaro a tutti: ci stiamo infatti rendendo conto che non potremo più riprendere a vivere come prima. Nemmeno la Cina sembra avere trovato una via d’uscita: la testimonianza più caustica (e icastica) su questo problema è quella di Edward Luttwak, che ha detto che il modello cinese “ti porta a una situazione, che sia la Cina o San Marino, dove elimini il virus dentro i tuoi confini, e poi devi tenere i confini chiusi fino al resto della storia umana”.
In verità una prima rotta sembra già tracciata: non se ne conoscono i dettagli, ma è chiaro che si baserà sui dati. La Corea del Sud ha già un’applicazione per monitorare i contagi con il metodo delle tre “t” (tracing, testing, treating) che aveva sviluppato per la MERS e ha funzionato bene per ricostruire la catena dei contagi del Covid-19. La Cina si sta appoggiando su Wechat e Alipay, le applicazioni per smartphone più diffuse fra i cinesi, tramite le quali assegna tre codici: verde per chi può circolare, giallo per chi è in quarantena e rosso per chi è contagiato. Tramite i servizi di geolocalizzazione di queste applicazioni è poi possibile verificare il rispetto delle regole sugli spostamenti e tracciare le catene di eventuali contagi. Negli Stati Uniti Trump ha annunciato una partnership con Google per lo screening dei contagi, di cui si sa ancora poco.
Che ci piaccia o no la risposta sembra essere nei dati. O meglio, nei “big data”.
Come ci stiamo muovendo noi? Per il momento sembra che si stia ragionando solo in termini di “terapia intensiva”, in cui l’ossigeno sarà la “helicopter money” a cui potremo accedere in varie forme. Ben venga, ma come faremo poi a vivere senza? Dovremo trovare un modo per convivere con il virus. E non sembra che ci siano strade diverse da quelle dei dati. In quest’ambito la Lombardia ha lanciato un’applicazione per mappare i rischi del contagio: è solo un questionario. Non si capisce perché si debba scaricare un’applicazione per compilarlo, ammesso che qualcuno abbia voglia e tempo di farlo. Se il buongiorno si vede dal mattino era meglio lasciar perdere: certe cose non si dovrebbero nemmeno mostrare, ancor meno annunciare, perché rivelano un dilettantismo che spaventa. C’è da augurarsi che sia un effetto della stanchezza e della confusione di chi ha dovuto affrontare la prova più dura. Qualcosa di meglio dovrebbe arrivare dalla ricognizione delle “soluzioni tecnologiche data driven di supporto al contenimento dell’epidemia” indetta a fine marzo dal Ministero dell’Innovazione, dove pare siano arrivate 504 proposte per la telemedicina e 319 per il monitoraggio attivo, che saranno valutate da una task force di 74 esperti. Con Calcutta si potrebbe cantare: “lo sai che se ne aggiungi 103 diventano mille?”. Scherzi a parte, può darsi che arrivi qualcosa di buono, però bisogna stare attenti: negli Stati Uniti si dice che un cammello è un cavallo disegnato da un comitato, ma qui siamo ben oltre.
Da dati presi a dati dati
A prescindere dagli aspetti tecnici, non sembra che si sia pienamente compreso il problema della riservatezza. Tutti si affannano a ribadire che i dati saranno anonimi, che non c’è nulla da temere per la privacy, eccetera, eccetera. Peccato che l’uso metodico delle tre “t” impone di sapere chi sono i contagiati e chi li ha frequentati, almeno durante l’incubazione e la malattia. Se volessimo poi adottare un sistema simile a quello cinese, assegnando a tutti un codice da cui dipende la libertà di movimento, qualcuno dovrà pur sapere chi sono. Altrimenti come è possibile verificare il rispetto delle regole di sicurezza o ricostruire la catena di eventuali contagi? Quindi è inevitabile che i responsabili del servizio sanitario e dell’ordine pubblico debbano accedere ai nomi degli interessati. Una consultazione in forma anonima potrebbe invece essere consentita a questi ultimi, per verificare se hanno avuto contatti con soggetti a rischio.
C’è poi una seconda incomprensione: che l’accesso ai dati nominativi possa essere sì consentito, ma solo per circostanze eccezionali. Questa lettura sembra d’altra parte coerente con il recente orientamento del Comitato europeo per la protezione dei dati. Bene, ma per quanto tempo dovrebbero durare queste “circostanze eccezionali”? Per il Coronavirus si parla di due o tre anni: il tempo minimo per scoprire, autorizzare e produrre un vaccino per tutti. Sempre che non si scopra che i guariti possono riammalarsi: in tal caso i tempi potrebbero allungarsi. Senza contare che il “tracing” dei contagi potrebbe diventare un’esigenza permanente. Stiamo dunque per entrare nell’era del Grande Fratello? In realtà ci siamo già, solo che non ci sorveglia il Ministero della Verità di Oceania, ma le imprese tecnologiche a cui abbiamo permesso da anni di raccogliere i nostri dati, inclusi quelli georeferenziati. Così accade che queste imprese possano già tracciare i nostri spostamenti meglio di qualsiasi governo, tranne forse la Cina.
Quindi, più che pensare a deroghe per consentire ai governi di prendere i dati personali, non sarebbe meglio farseli dare dai diretti interessati, come hanno fatto le imprese tecnologiche? È davvero così difficile passare dai “dati presi” ai “dati dati”? Dipende. La trasmissione dei dati personali alle autorità pubbliche evoca un’immagine sinistra di stato di polizia. Però non spaventa trasmetterli alle imprese digitali, forse perché incutono meno timore, ma probabilmente anche perché le imprese digitali dedicano molte più energie e risorse per raccogliere il consenso degli interessati in modo subliminale. Tant’è vero che molti non si ricordano di averlo dato. Nel Regno Unito il governo ha preso coscienza della rilevanza delle dinamiche psicologiche del consenso nel 2010, quando ha istituito il Behavioral Insight Team, che ha incominciato a occuparsi dell’architettura delle decisioni attraverso le tecniche del cosiddetto “nudging”, che tra l’altro sta applicando anche al contenimento del contagio del Covid-19. Uno dei metodi più comuni del nudging è la cosiddetta “forcing function”, cioè una funzione di scelta necessaria per accedere a un determinato servizio. Si potrebbe utilizzarla, per esempio, per distribuire un’autocertificazione digitale al posto dell’incomprensibile modulo che ha suscitato meme esilaranti.
Per arrivare a questi livelli di competenza occorre però tempo. Che non abbiamo. Per questo la scelta di reinventare ruota e acqua calda non è facilmente comprensibile. È vero che Israele è diventata leader mondiale della cybersecurity grazie al sostegno pubblico delle proprie imprese di servizi d’intelligence, né si può escludere che una delle soluzioni proposte sbaragli le applicazioni di colossi come Google, Tencent e Ant Financial, diventando la nostra occasione di riscatto nella scena tecnologica mondiale, in cui siamo sostanzialmente assenti. Tuttavia si tratta di un’ipotesi a dir poco azzardata. In proposito è bene avere in mente due aspetti che saranno cruciali per la ripresa.
Il primo, è che gli “incumbent” digitali sono quelli posizionati meglio per la raccolta e il monitoraggio dei dati, poiché le loro applicazioni sono già installate nei dispositivi di quasi tutti i cittadini, hanno il know-how necessario per la raccolta dei consensi e per l’analisi dei dati, che peraltro hanno già in gran parte. Non è un caso che il governo cinese si sia appoggiato sulle applicazioni più diffuse in Cina.
Il secondo, è che la velocità e l’efficienza con cui saranno gestiti questi processi sarà cruciale per i tempi e la velocità della ripresa: chi riuscirà a muoversi per primo e più efficacemente avrà un indubbio vantaggio competitivo, mentre gli altri potrebbero restare indietro e perdere posizioni.
Quindi è importante che si dedichi grande attenzione a questi aspetti, che potrebbero rivelarsi decisivi per il nostro futuro.