Se citofonando la crescita economica resta un gioco a somma zero

scritto da il 07 Febbraio 2020

Posto che la vittoria di Bonaccini in Emilia Romagna ha scongiurato una volta ancora la fine del mondo e il crollo del cielo sulla testa di tutti noi mortali, potrebbe essere una buona occasione per una riflessione pacata sulla fiducia nelle istituzioni e in particolare nei confronti dei politici e della stampa, partendo dal convitato di pietra di tutte le principali discussioni del nostro paese: la crescita economica.

Utilizziamo come dato di partenza il Trust Barometer 2020, l’indagine internazionale sul livello di fiducia verso istituzioni pubbliche e le organizzazioni redatta dall’istituto Edelman. Osservando i due grafici a pagina 57 del report di quest’anno, recentemente commentati su Twitter da Carlo Alberto Carnevale Maffè, osserviamo come il nostro paese si collochi non solo nel quadrante peggiore (quello dove gli indicatori di competenza e comportamento etico assumono valori negativi), ma anche a una distanza notevole dall’origine degli assi (nel caso del governo si trova all’esterno dell’area rappresentata).

Come interpretare giudizi tanto negativi? E quale potrebbe essere una chiave di volta per riguadagnare almeno in parte la fiducia perduta? Si potrebbe ad esempio partire dal rapporto “incestuoso” tra mass media e politici, recentemente stigmatizzato in un articolo del New  York Times (qui una sintesi in italiano): se i politici non sono affidabili, i giornali e le televisioni dovrebbero assolvere al ruolo di watchdog, verificarne le affermazioni, e chiedere conto delle promesse non mantenute, piuttosto che limitarsi a rilanciare acriticamente dichiarazioni e gesta più o meno nobili, come testimoniato dell’episodio recente della citofonata di Salvini.

Partendo da questo aspetto perverso del legame tra politica e media è possibile avviare una riflessione congiunta e usare il tema della crescita come filo conduttore. Prendiamo il governo in carica e guardiamo alla narrazione in base alla quale “si mettono più soldi nelle tasche dei cittadini” che ancora dilaga attraverso l’account ufficiale del presidente del consiglio.

Cosa vuol dire questa affermazione? Probabilmente che il reddito disponibile di alcuni contribuenti dovrebbe aumentare in virtù di una riduzione del prelievo fiscale.

La prima umile domanda dovrebbe essere: come verrà compensato il minor gettito per le casse dello Stato? Se non si riduce in misura proporzionale la spesa pubblica (dunque togliendo ad altri lavoratori e/o pensionati e/o riducendo i servizi forniti dalla pubblica amministrazione) quel gettito sarà compensato da altre imposte o da nuovo debito.

Chiunque parli di metter soldi nelle tasche degli italiani, se non racconta dove intende prenderli, sta raccontando solo metà della storia. Se nessuno solleva questo punto, il messaggio principale che passa è che esista un “tesoretto” o una torta da dividersi e che il problema principale sia come accaparrarsi la fetta più grande.

La scomoda verità è, ovviamente, che non esiste alcuna torta data e che le risorse che lo Stato distribuisce ad alcuni sotto forma di sussidi (reddito di cittadinanza, bonus cultura), minori imposte (80-100 euro), agevolazioni di carattere previdenziale (quota 100, Ape Social) vengono fornite da altri contribuenti di oggi o di domani (deficit da rimborsare).

Stiamo dunque dicendo che i lettori e gli elettori sono tanto ingenui da credere nella manna dal cielo e da non rendersi conto che non esistono pasti gratuiti? No, stiamo dicendo che la maggior parte dei politici e dei media li tratta come tali e, dunque, non c’è da sorprendersi del generalizzato senso di sfiducia nei confronti dei rappresentanti di queste due istituzioni.

Se il governo Conte parla di mettere soldi nelle tasche degli italiani (neanche fosse in campagna elettorale) senza specificare dove ha intenzione di prenderli, l’opposizione interna al governo, costituita da ItaliaViva di Renzi non sembra da meno.

Dalla campagna per “scongiurare l’aumento dell’IVA“, che ha dato l’avvio al processo costitutivo del governo in carica, alla frustata fiscale promossa da Luigi Marattin, passando per le “proposte shock”  per rilanciare l’economia, osserviamo una descrizione accurata di quanto il bicchiere sarà mezzo pieno, senza però indicare da dove dovrebbe provenire l’acqua.

L’IVA scongiurata,

  • in primo luogo, non è un risparmio, ma in realtà è un esborso aggiuntivo minore del previsto in un quadro in cui la tassazione complessiva rimane elevata
  • in secondo luogo è una questione a malapena rinviata stanti le clausole di salvaguardia per 47 miliardi entro il 2022

Con riferimento all’IRPEF, si può proporre di semplificare e trasformare l’imposta anche in modo radicale, ma non è possibile ridurre il carico fiscale senza ridurre proporzionalmente la spesa pubblica, oppure, in ottica dinamica, senza aver prima ottenuto un ritorno del paese a livelli sostenuti di crescita, con conseguente aumento di gettito.

Last but not least, anche le famigerate opere incagliate per le quali “i soldi ci sono già” non costituiscono pasti gratis, come ben spiegato dall’osservatorio sui conti pubblici.

Se il governo può permettersi di far campagna elettorale senza indicare le coperture dei propri provvedimenti (o senza specificare che si intende finanziarli mediante deficit), l’opposizione può vivere di rendita lasciandosi comodamente sollevare dall’onda di dissenso strutturale che si sviluppa tipicamente nei confronti di chi governa.

Perché allora è fondamentale concentrarsi sulla crescita o, più precisamente sulla generalizzata assenza di politiche per la crescita?

 

Finché lo sviluppo economico della società viene concepito come una sorta di gioco a somma zero (se non negativa) e questa accezione appare condivisa da un estremo all’altro dell’intero spettro politico, si realizza un circolo vizioso:

  1. l’elettorato attivo tende a restringersi convergendo sulle poche categorie che hanno una qualche speranza di ottenere un beneficio dalle politiche redistributive
  2. la classe politica individua come prioritaria, se non unica, la finalità di compiacere le minoranze interessate dal punto precedente, rinviando le riforme strutturali per paura di perdere consenso se si azzardano a intaccare gli interessi di quelli che vanno a votare
  3. i media favoriscono l’interazione dei due punti precedenti abdicando al ruolo di cani da guardia del sistema democratico

Un paese che non cresce e non parla di crescita è un sistema nel quale prevale la logica del “si salvi chi può” dove i giovani, le persone più istruite e quelle con maggiore propensione al rischio imprenditoriale emigrano mentre chi rimane cerca di ottenere il maggior vantaggio possibile dal processi di redistribuzione operato dall’apparato statale.

Ma per evitare di nascondersi dietro un dito è bene chiarire che parlare di crescita vuol dire parlare di:

  1. riduzione dell’intermediazione dello Stato in tutti gli ambiti per i quali essa costituisce un beneficio per pochi a spese di tutti
  2. vincoli di finanza pubblica ineludibili costituiti da uno stock di debito pubblico molto elevato in rapporto al Pil e una pressione fiscale tra le più elevate nei Paesi sviluppati
  3. investimenti in capitale umano (piuttosto che in capitale fisico) volti a migliorare la competitività del sistema paese e creare condizioni favorevoli all’innovazione

Non è un caso che si tratti di tematiche quasi assenti dal dibattito pubblico: solo tornando a parlare di crescita economica e adoperandosi per promuoverla è possibile nutrire qualche modesta speranza di invertire il meccanismo perverso per il quale la rassegnazione al declino presente e la politica economica del “raschiare il fondo”, mortificando le poche energie vitali rimaste, gettano le basi per un maggior declino futuro.

Twitter @MassimoFamularo

PER APPROFONDIRE: 

Lorenzo Bini Smaghi sul Corriere

Intervista Marattin IRPEF

Osservatorio CPI su come le risorse stanziate per investimenti alimentano lo stock di debito