11 ore di treno per fare 350 km, ma il Sud è stato depredato o no?

scritto da il 04 Gennaio 2020

Il 21 gennaio 1962, in seguito all’approvazione della Legge Zaccagnini circa il piano di costruzioni stradali e autostradali, ebbero inizio i lavori della biblica e, forse, segnatamente prediluviana Salerno-Reggio Calabria. Furono accesi mutui per 180 miliardi di lire. La data non ci tragga in inganno, giacché il piano regolatore delle autostrade, tra le quali era compresa anche la SA-RC, era già stato concepito nel 1934! Dunque: idealmente, ci sono voluti 82 anni per il suo completamento; materialmente, 54. Sembra, infatti, che, nel 2016, i lavori siano stati completati: il ‘sembrare’ è d’obbligo, viste le attuali condizioni. In sostanza: un completamento incompleto. E il gioco retorico è fatto!

Sulla scorta della nota storico-infrastrutturale, proviamoci adesso a collegare con il treno due estremi della Sicilia, la penultima regione d’Italia in fatto d’occupazione, così da comparare distanze e tempi di percorrenza.

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Accedendo al sito di Trenitalia e avvalendoci degli strumenti di Google, è molto semplice dimostrare, in proporzione, che i maghrebini, nel medioevo, lungo le vie carovaniere del Sahara, quantunque muniti di cammelli e dromedari, erano più veloci dei treni siciliani. Trapani dista da Catania 315,5 km: il treno copre questa distanza in 6 ore e 30 minuti, se la buona sorte arride ai viaggiatori. Ma il tratto TP-CT è ‘fortunato’, per così dire. Se da Trapani si vuole andare a Messina, se cioè si vogliono percorrere appena 14 km in più (329,3 km), occorrono addirittura più di 8 ore. Il viaggio si trasforma in una vera e propria via crucis – nei termini della sofferenza, non in quelli temporali, dato che la via crucis dura di meno –, se invece, da Trapani dobbiamo raggiungere Ragusa perché sono necessarie 10 ore (quasi 11, a voler esser onesti) per fare 359,1 km.

Trenitalia ha ripristinato solo di recente e dopo 20 anni la linea diretta fra Bari e Napoli

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Perché l’alta velocità non è stata pensata e realizzata per prima al Sud? Di fatto, la narrazione comune c’impone di credere che il Mezzogiorno sia sprecone e inefficiente: non solo siamo indotti a credere che abbia ricevuto parecchi ‘aiuti’, i cosiddetti trasferimenti, ma ‘dobbiamo’ anche scriverlo sui giornali e, in generale, raccontarlo entusiasticamente attraverso i media d’ogni genere e specie. Purtroppo (…’purtroppo’ solo per certi narratori, intendiamoci!), le prove documentali portano altrove e ci permettono di affermare che quanto è stato tolto al Mezzogiorno è molto superiore a quanto a esso è stato dato. Sulla base dell’ultimo rapporto SVIMEZ, per esempio, siamo in grado di documentare che la spesa pro capite delle PA, al Sud, è pari 11.309 euro, mentre nel Centro-Nord arriva a 14.168 euro, quasi 3.000 euro in più. Com’è possibile o anche solo concepibile una simile differenza di trattamento? Lo abbiamo chiesto a Pietro Massimo Busetta, ordinario di Statistica Economica all’Università degli Studi di Palermo, membro del Consiglio di Amministrazione e membro del comitato scientifico della rassegna economica della SVIMEZ. Insomma: non uno qualunque, ma uno studioso che si occupa del Mezzogiorno addirittura da trent’anni. È del 1985 il suo primo lavoro sul sistema bancario meridionale.

Centro Ricerche Economiche Angelo Curella

Centro Ricerche Economiche Angelo Curella

Di recente, il professor Busetta ha pubblicato Il coccodrillo si è affogato Mezzogiorno: cronaca di un fallimento annunciato e di una possibile rinascita, un vero e proprio compendio per chi abbia il coraggio di conoscere la verità di fatto sull’economia del Sud.

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Alla nostra domanda su come sia possibile una significativa difformità di trattamento in materia di spesa pro capite della Pubblica Amministrazione tra Nord e Sud, il professore, laconico, stentoreo e perentorio, risponde: “È uno scippo!”.

Facciamo qualche passo indietro per risalire alla Legge 42 del 2009, il cui merito dev’essere ascritto all’allora Ministro per la Semplificazione Normativa Roberto Calderoli. L’obiettivo della Legge era quello di ottenere una stima dei finanziamenti da destinare ai servizi pubblici. A questo scopo, vennero concepiti i LEP, ossia Livelli Essenziali di Prestazione. In quella circostanza, la risultanza dell’indagine determinò un naturale sbilanciamento di calcolo a favore del Sud. A tal proposito, tuttavia, come si legge nel libro denuncia di Marco Esposito, Zero al Sud, e come sottolinea il prof. Busetta, i documenti furono secretati, in modo che si potesse ridisegnare il criterio di assegnazione dei fondi, e si passò a quello della ‘spesa storica’. Busetta aggiunge: “Se ci si basasse sui principi di uguaglianza della spesa pro capite, ogni anno occorrerebbe restituire al Mezzogiorno 60 miliardi di euro, che invece finiscono al Nord”.

Tale analisi non annulla affatto le responsabilità della classe dirigente, che, diversamente, lo studioso della SVIMEZ definisce classe dominante. È appena il caso però di sfatare certi ammorbanti luoghi comuni.

La situazione meridionale è più grave di quanto si possa immaginare. Secondo le stime della SVIMEZ, pubblicate nel report sul primo semestre del 2019, la spesa per consumi finali delle PA ha fatto registrare un -0,6%; il che potrebbe quasi essere considerato irrilevante, se commisurato al trend generale. Se tuttavia consideriamo il decennio 2008-2018, scopriamo che la contrazione è giunta addirittura al -8,6%. Nel 2018, per esempio, la Campania ha avuto una ‘crescita zero’; la Sicilia è riuscita a raggiungere un +0,5%, ma solo dopo il -0,3% dell’anno precedente, mentre la Calabria ha riportato un segno negativo anche nell’ultimo anno: -0,3%.

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Nel semestre summenzionato, laddove il Centro-Nord, pur arrancando rispetto al passato, ha prodotto 127.000 nuove unità lavorative, il Sud, al contrario, ne ha perdute 27.000. A questi dati si sovrappone l’ormai noto fenomeno dello spopolamento, che costa all’intera area circa 20 miliardi l’anno. Considerando, infatti, che, in termini di spesa complessiva, ogni emigrato vale 200.000 euro e tenuto conto del fatto che, ogni anno, vanno via 100.000 persone, i conti sono presto fatti. Il Mezzogiorno ha 21 milioni di abitanti, ma solo 6 milioni di occupati: in sostanza, lavora solo il 28.5% della popolazione. Alcune regioni, le più ‘disgraziate’, come la Sicilia e la Calabria, fanno registrare tassi di disoccupazione, rispettivamente, del 22,1% e del 23,2%. E in alcune province lavora addirittura una persona su quattro.

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In una “realtà sottosviluppata, non infrastrutturata, con processi di spopolamento e reddito pro capite pari alla metà di quello nazionale o a un quarto di quello lombardo-veneto” (BUSETTA, P., 2018, Il coccodrillo si è affogato), come si può pensare di attrarre investimenti? Non a caso, secondo i dati dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero, nel 2015, il 95% delle imprese a partecipazione estera presenti in Italia era collocato nel Centro-Nord. Rebus sic stantibus, è evidente che il gap è incolmabile.

Adottando l’Emilia Romagna come benchmark, regione notoriamente virtuosa, si nota che, su 4,5 milioni di abitanti, 1,9 milioni lavorano: il 43%. Se ci spostiamo in Finlandia, paese con 5,4 milioni di abitanti (solo 400.000 abitanti in più della Sicilia), 2,5 milioni di loro sono occupati: il 46,2%. (Cfr. BUSETTA, 2018, op. cit.)

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Con questi numeri, come si può pensare anche lontanamente a delle speciali agenzie per gli investimenti esteri (IDE) sul modello olandese, per esempio, o su quello irlandese e gallese, NFIA (Netherland Foreign Investment Agency), IDA (Irish Development Agency) e WDA (Welsh Development Agency)? Ne Il coccodrillo si è affogato, lo studioso della SVIMEZ fa un ‘lacerante’ confronto tra il caso del Mezzogiorno italiano e quello dell’ex DDR, i cui Länder, in seguito alla riunificazione della Germania, nel ventennio 1991-2011 hanno ricevuto trasferimenti per oltre 2.000 miliardi, equivalenti a una media annua di 100 miliardi, con un’addizionale del 4% sull’imposta reddituale a titolo di contributo di solidarietà. Naturalmente, è inutile dire che tale strategia macroeconomica ha determinato una crescita evidente in tutti i settori della società, che altrimenti sarebbero rimasti al palo, come si suol dire.

Entro il 2020, secondo le previsioni del Decreto Sud, quello che prevede – per intenderci – l’infrastrutturazione delle ZES, le Zone Economiche Speciali, in Sicilia, Campania, Calabria, Basilicata e Puglia, dovrebbero essere investiti circa 200 milioni di euro. È vero che la ‘filosofia’ è sana e positiva: le aree portuali designate dovrebbero godere di agevolazioni fiscali e di procedure amministrative semplificate. In particolare, sarà concesso alle imprese un bonus quale credito d’imposta maggiorato, ma proporzionato all’acquisto di beni da utilizzare in strutture che operano proprio all’interno delle ZES. Non ci vuole un genio però per capire che:

1) 200 milioni sono pochi;

2) lo sfruttamento del credito d’imposta, per quanto utile, è successivo all’impegno che le imprese devono assumere, imprese che, nel Meridione, oscillano tra la crisi di liquidità e l’inadeguatezza infrastrutturale della società che le circonda. Un imprenditore meridionale del settore manifatturiero non affronta gli stessi costi di un imprenditore del Nord.

L’Italia senza Sud senza Sud avrebbe 40.000.000 di abitanti, quanto la Spagna. Non sarebbe più tra i grandi dell’Europa, che consoliderebbe la guida a due (Francia e Germania). Sarebbe esclusa probabilmente anche dal G8, mentre il ricco Nord perderebbe o, per lo meno, non avrebbe i vantaggi odierni di un mercato importante di 21.000.000 di abitanti (…) Se qualcuno pensa di salvarsi, tagliando lo stivale per farlo affondare nel suo sottosviluppo, si sbaglia di grosso. Questo paese dimezzato perderà quel ruolo di grande dell’Europa che finora ha avuto e che lo ha portato nelle idee luminose di Ventotene a essere paese fondatore dell’Europa. Non ha alternative: o digerisce il boccone, che con protervia, arroganza e scarsa visione ha inghiottito, senza mettere in atto le politiche per unificarlo davvero, oppure affogherà come quel coccodrillo che uccide e poi cerca di mangiare un bue troppo grande e muore perché incapace di digerirlo.

 

P. M. Busetta, Il coccodrillo si è affogato

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