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Università, basta un software a trasformare giovani risorse in opportunità
Alcuni mesi fa son inciampato su Youtube in un video che, per quanto creato da un “life coach”, è piuttosto impressionante. Il titolo è tutto un programma: “Ho fatto causa alla scuola”. Nel video un avvocato (il life coach) spiega che la scuola (americana) è antica, non prepara gli studenti per la vita ed è auto-referenziale. Il video è godibile ma apre un tema a mio avviso significativo.
L’intera struttura d’insegnamento occidentale (non ho conoscenza dello stile asiatico indo-cinese) è plasmata su una serie di aspettative di crescita culturale, e relative necessità lavorative, che si rifanno all’epoca della rivoluzione industriale. Un’epoca in cui erano presenti grandi impianti industriali in occidente, dove l’agricoltura era un’importante forma di occupazione, dove il terziario era pressappoco limitato a una costola che serviva i primi due gruppi e l’analfabetismo galoppava.
Elementari, medie, liceo e università sono, salvo lodevoli eccezioni (che rappresentano la conferma dell’esistenza dei casi statistici) strutture vetuste. La stessa aurea di rispetto e mistero, quasi che fossero degli antichi alchimisti, spesso circonda i docenti, è preoccupante. Bene inteso non suggerisco certo che si debba mancare di rispetto a coloro che insegnano. Si dovrebbe però cominciare a considerare il loro ruolo in termini di ritorno d’investimenti ed efficienza. Un esempio banale, per quanto rilevante. Quando ero alunno, nelle mie lezioni di storia al liceo classico, i libri riportavano che i romani non andarono mai oltre il vallo di Adriano nei territori della Caledonia (l’odierna Albione, pardon Regno Unito).
Oggi è cosa risaputa che vi era almeno un castrum in Irlanda e che il commercio e gli scambi culturali con l’impero erano cosa normale. Se considerate come la storia sia percepita, e spesso insegnata, come immobile, non ci vuole molto a immaginare come altre materie come l’astronomia, la scienza in generale vengano insegnate. Però concediamoci di sperare che la scuola dell’obbligo e i licei possano riformarsi da soli (magari dando importanza alla pratica di discernimento, in un mondo dove i dati ormai sono infiniti) e concentriamoci sulle Università. In Italia c’è un evergreen (sempreverde, gergo da giornalista) su cui ogni giornalista, prima o poi capita che scriva un pezzo: l’università italiana non forma per il lavoro. Se questo tema può essere più o meno discutibile in ambito di discipline tecniche (dalla medicina alla fisica) nel settore umanistico (dalla finanza alla giurisprudenza) molto resta ancora teorico. Dato che cerco sempre di approfondire i temi anche quando sono controversi ho pensato di cercare almeno un caso storico che vada contro questa tendenza.
“Chiaramente noi, come Università di Urbino, facciamo già progetti operativi per favorire la contaminazione tra teoria e concretezza”, argomenta il professor Pencarelli, ordinario di economia e gestione delle imprese della Scuola di Economia. “Di solito collaboriamo con imprese ed associazioni di categoria in progetti didattici innovativi volti al problem solving. Ad esempio, con Confindustria si collabora da anni al progetto Orientagiovani Confindustria Learning by doing University in cui diversi colleghi dell’Ateneo coinvolgono i propri allievi su problematiche concrete di informatica, di marketing, di internazionalizzazione, di analisi del business e di predisposizione di piani strategici per fornire idee e proposte innovative alle aziende coinvolte. Io stesso, insegnando strategia d’impresa, sviluppo laboratori di analisi strategica applicati a casi aziendali, per stimolare gli studenti ad avere una visione di insieme ed applicare una pluralità di strumenti nell’affrontare le sfide manageriali”.
Quando parliamo di software e soluzioni digitali è, prima di tutto, importante capire se c’è apertura e disponibilità, nelle nuove generazioni di studenti, verso “la cosa digitale”. La “cosa digitale” può permettere loro di acquisire metodologie di lavoro moderne compatibili con le richieste del mercato del lavoro.
“Curiosità intellettuale digitale ne abbiamo”, mi spiega Fabrizio Ugolini, lecturer dell’Università di Urbino e dottore commercialista. “Specialmente se parliamo della Generazione Z che, è quella che frequenta i corsi universitari, è una generazione nativa digitale familiare con un pc o un tablet. Purtroppo i giovani non hanno la stessa curiosità di affacciarsi a software e applicativi del mondo del lavoro. Forse perché non sono adeguatamente stimolati. Anche per questo è nato un progetto con l’Università di Urbino per utilizzare un applicativo chiaro e strutturato, che è già mainstream nelle imprese italiane. A Urbino, l’insegnamento non è solo basato su lezioni teoriche di docenti strutturati, ma è aperto al contributo innovativo di manager, imprenditori e professionisti esterni”, continua Ugolini, “gli studenti sono preparati dal punto di vista teorico, ma operativamente a volte sono carenti. Quello che ho osservato dalla mia esperienza di ex allievo dell’Ateneo è che nei corsi servirebbero più laboratori dove possano essere utilizzati applicativi per analizzare casi di studio. Il mio riferimento è all’Università che conosco e di qui il mio impegno per apportare alcune esperienze mutuate dal mondo della consulenza aziendale in cui sono immerso. Un laureato magistrale o triennale può riscontrare difficoltà operative nel momento in cui entra nel mondo del lavoro. È partendo da questa posizione che, in collaborazione con il professore Pencarelli, ho proposto di far utilizzare uno strumento informatico già ampiamente adottato in ambito aziendale per la pianificazione economico-finanziaria e per formulare scenari di crisi d’impresa. Attualmente lo abbiamo introdotto come strumento consulenziale agli studenti della summer school La gestione finanziaria delle microimprese“.
Sul tema torna anche il professor Pencarelli che mi spiega. “Abbiamo utilizzato questo software, già distribuito alle aziende, ad un prezzo accademico per il nostro corso. I partecipanti erano sia studenti sia lavoratori provenienti dal tessuto imprenditoriale locale composto, per lo più, da aziende mediamente sotto i 10 addetti e 1 milione di fatturato. Una realtà di manifatture e di servizi, quella della nostra area, che ha minor conoscenza delle tecniche di pianificazione economica e finanziaria e di previsione di una crisi aziendale, specialmente considerando gli standard indicati dal nuovo codice della crisi d’impresa. Abbiamo realizzato lezioni di tipo teorico metodologico classiche, integrate da laboratori in collaborazione con il dottor Ugolini. Erano laboratori in cui si facevano applicazioni concrete: prima si svolgeva l’analisi del business model poi si predisponeva il business plan su vari orizzonti temporali al fine di presentarlo a una banca per una richiesta di erogazione di credito. Il beneficio didattico riscontrato utilizzando un software è aver accresciuto il coinvolgimento attivo degli allievi, cui si collega il vantaggio di dar loro la possibilità di far conoscere uno strumento applicativo che, una volta laureati, gli studenti potranno utilizzare in una sede aziendale nell’ambito della pianificazione finanziaria”, conclude Pencarelli.
Resta da capire se Urbino sia un caso lodevole ma isolato o l’avanguardia di un nuovo tipo di università moderna e digitale. La criticità e l’evoluzione della legge sulla crisi d’impresa pone una ulteriore sfida alle Pmi italiane. Premesso che i continui cambi di governo potrebbero portare a ulteriori modifiche della legge (per fini politici a mio avviso più che per ragioni operative) resta il fatto che molte Pmi utilizzano ancora il buon vecchio foglio di Excel.
Una soluzione sicuramente economica, ma che ha fatto il suo tempo. Il rischio per il mondo universitario è, se non si corre velocemente ai ripari, di continuare a “sfornare” dei laureati che avranno una formazione teorica valida ma una formazione pratica inadatta alle necessità lavorative delle aziende. Per quanto quest’analisi possa apparire la solita riflessione “l’università non forma per il mondo del lavoro” è facile notare come basta inserire nel percorso di studi e di laboratori software moderni, già ampiamente diffusi presso le aziende, per cominciare un percorso di evoluzione e ammodernamento del corso di studi.
Non dimentichiamo anche l’impatto sul mondo del lavoro. Non è segreto che ogni azienda, una volta acquisita una giovane risorsa, debba poi formarla. È auspicabile che una risorsa che esce da corsi dove ha appreso la gestione di software moderni, un approccio legato al timing e una struttura mentale più protesa a concetti operativi (quali break even, gestione magazzino just in time etc..) possa divenire più velocemente un’unità produttiva di un’azienda, accorciando i tempi (e i costi) di formazione della Pmi ma, egualmente, migliorando le performance lavorative e quindi, per conseguenza, il ritorno economico (leggasi stipendio e benefit). Una soluzione win-win che, in un mondo in cui la velocità e il digitale sono ormai una cosa sola, è una scelta obbligata piuttosto che una “novità”.
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