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Pmi orfane di manager tosti e l’Italia arranca. Ecco i perché
Co-autore di questo post è Beniamino Piccone, contributor di Econopoly, private banker e docente di Sistema finanziario all’Università Carlo Cattaneo di Castellanza –
Guardiamo in faccia la realtà. L’Italia non cresce[i]. Tra i tanti motivi, forse il più sorprendente è la mancanza di bravi manager, soprattutto nelle piccole e medie imprese (PMI)[ii]. Una miope ricerca di capri espiatori (attività in cui noi italiani siamo campioni del mondo) porterebbe ad incolpare il governo, o l’Europa. Sarebbe bello poterlo fare, ma non si può – la realtà è un’altra.
Le PMI sono la dorsale dell’economia italiana, ma non creano occupazione né sviluppo tecnologico. Le PMI della Penisola sono tantissime, per lo più minuscole, e danno lavoro alla maggioranza degli Italiani – ben al di là della media: i) dell’Unione europea (Ue) e ii) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse)[iii]. Con un ruolo così sistemico, la loro incapacità di crescere è diventata un enorme freno per il Paese. Da decenni, le PMI: a) sopravvivono in qualità di terzisti; b) si servono di pratiche gestionali ‘artigianali e inefficienti’; c) pagano salari bassi; e d) sfuggono a regole e tasse. Preoccupa anche l’‘anzianità’ di queste imprese (nel senso che sono attive da molti anni): è proprio quando le PMI crescono – e dunque smettono di essere tali, “sparendo” dalle statistiche – che si creano posti di lavoro e innovazione.
Perché le PMI non crescono? Il nanismo dell’impresa italiana – l’incapacità di crescere a livello dimensionale – è frutto di: 1) una gestione familiare da “padre padrone” refrattario al cambio; 2) eredi non all’altezza messi in ruoli chiave; e 3) della nefasta cultura del “piccolo è bello” (Giuseppe De Rita, cit.[iv]). Anna Giunta e Salvatore Rossi (Che cosa sa fare l’Italia, il Mulino, cit.[v]) pongono alcuni casi tipici: «(…) l’ostinazione a far sopravvivere l’impresa nella sua forma originaria, impedendone l’evoluzione, anche quando non risulti più vantaggioso; una selezione inefficiente o addirittura controproducente dei dirigenti e dei successori; una eccessiva avversione al rischio – soprattutto nei casi in cui buona parte della ricchezza familiare sia concentrata nell’impresa – che mortifichi gli “animal spirits”, ingrediente essenziale di qualunque avventura imprenditoriale di successo» .
Il “one man show”, spesso in buona fede, del ‘padre padrone’. Di norma, più per mancanza di competenze manageriali che per cattivo carattere, il fondatore fa il bello e il cattivo tempo – con buona pace della “corporate governance” e dei “checks and balances” interni. I dati parlano chiaro; in Italia: 1) le imprese familiari hanno una minor probabilità – rispetto ad altre di più grandi dimensioni – di essere dirette da un laureato; 2) le imprese di singoli individui e familiari tendono ad avere una quota più bassa di laureati rispetto alle altre imprese (6,6 vs 10,9 per cento), come evidenziato dagli economisti Fabiano Schivardi e Roberto Torrini[vi]; e 3) il basso livello d’istruzione dei componenti della famiglia proprietaria è un altro motivo a cui ricondurre il nanismo. E il finale è già scritto: se la piccola impresa si fonda su di una sola persona che accentra tutte le decisioni importanti, quando la persona viene a mancare, la struttura si sfalda in pochi anni – inevitabilmente.
Eredi non all’altezza, in ruoli strategici. In una società a controllo familiare, la selezione del personale non è meritocratica perché influenzata da un fattore decisivo: la fiducia. Se manca la fiducia, invece del manager serio viene scelto il figlio o il nipote. In altre parole, la fedeltà vince sulla competenza. Spesso gli eredi non sono all’altezza, o sono stati così viziati dai genitori che non hanno voglia di prendersi l’impegno quotidiano della fatica. Secondo Luigi Zingales: «Il processo di selezione dei talenti è così marcio che nel Bel Paese molte persone, soprattutto donne e dotate di tutte le capacità per essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i posti dirigenziali sono a affidati a chi è ben introdotto, anche se spesso incapace. Per questo in Italia ci sono le migliori segretarie e i peggiori manager»[vii]. In un’impresa basata sulla meritocrazia, i leader sono invece scelti perché hanno intelligenza e spirito critico, e non importa se provengono da famiglie disagiate e povere, l’importante è che siano i più adatti a governare. Non è questo il caso delle PMI italiane.
Le PMI soffrono di “distorsioni cognitive”. Un tempo si poteva essere competitivi anche senza una “cassetta degli attrezzi” evoluta. Nel 2019 non più. Bisogna, per esempio, stare attenti anche alle “distorsioni cognitive”, che sono “deviazioni sistematiche dalla razionalità nel momento della formulazione del giudizio” e portano a “distorsioni della valutazione causate dal pregiudizio”. La PMIs soffrono due fenomeni noti nella letteratura: A) l’“effetto Dunning-Kruger” (che porta gli eredi incompetenti a diventare arroganti) e B) “il paradosso di Berkson” (che porta ad assumere impiegati poco produttivi).
- A) Effetto Dunning-Kruger: gli individui poco capaci tendono a: 1) sopravvalutare le proprie abilità – autovalutandosi, a torto, come “esperti”; e 2) divenire estremamente supponenti con inesorabile rapidità (Figura 1). Il caso di molti esponenti politici è eclatante (chi ha orecchie per intendere, intenda).
Figura 1. Senza competenze si diventa arroganti, e poi si cade
Fonte: Business Times, 2019.
- B) Paradosso di Berkson: in teoria, esiste una correlazione positiva tra: a) le competenze degli impiegati (riassunte nel CV e nelle qualifiche); e b) la loro efficacia sul posto di lavoro; in altre parole, più un impiegato è competente e più diventa produttivo. Nella Figura 2, ogni cerchio nero corrisponde a un lavoratore. Come si può vedere, i cerchi neri – che rappresentano il mercato del lavoro -) sono più o meno distribuiti con una correlazione positiva tra “skills” (competenze) ed “effectiveness” (efficacia o produttività). Sfortunatamente per le PMI, alcuni di questi individui sono troppo costosi (area rossa) mentre altri non sono impiegabili – per mancanza di esperienza o perché comunque percepiti come poco produttivi (area blu). Una volta sottratte le aree blu e rossa, rimane l’area bianca, che rappresenta i dipendenti della PMI: i più qualificati risultano i meno efficaci, mentre i meno qualificati sono i più produttivi. In altre parole, quando assumono, i datori di lavoro creano un trade off tra competenze ed efficacia, che nella PMI si trovano in “correlazione negativa” (Figura 2)[viii].
Figura 2: nelle PMIs, spesso gli impiegati più qualificati sono i meno produttivi
Fonte: Brilliant.org, 2019.
Risultato? Basso costo del lavoro, no ai manager che vengono da fuori. Le PMI hanno un costo del personale inferiore, perché: a) pagano salari più bassi; b) non sono soggette agli stessi oneri sociali delle imprese più grandi; e c) impiegano persone “in nero”. Il rapporto tra “valore aggiunto” e “costo del personale” è nettamente più alto per le micro-imprese (2,6) che per le altre imprese (tra 1,4 e 1,5); così, queste ultime – spinte da costi di produzione elevati che ne riducono i margini di profitto – finiscono per creare lavoro fuori dall’Italia. Nella piccola impresa si vive un circolo vizioso: il fatturato è così basso, i margini sono così esigui (erosi anche da elevati oneri finanziari legati ad una struttura del passivo dotato di poco equity e molto debito) che non ci si può permettere di pagare un amministratore terzo – fuori dalla cerchia familiare – in grado di traghettare l’impresa verso una dimensione adeguata alla competizione internazionale. Insomma, senza un conto economico di spessore, alle PMIs mancano le risorse per pagare i migliori.
Piaccia o no, è cambiato il mondo: oggi, “piccolo è brutto”. In passato, “piccolo era bello”: tante piccole imprese – agglomerate in distretti – riuscivano a superare i problemi strutturali del Bel Paese grazie alla loro flessibilità, e spingevano la crescita. Con la “crisi dei sette anni” – dal 2009 al 2016 – e il relativo crollo della domanda interna – il sistema si è bloccato. Si sono salvate solo le imprese con una forte vocazione all’internazionalizzazione, che richiede: 1) una strategia e una struttura organizzativa chiare; 2) la capacità di gestire processi complessi su più mercati; e 3) l’adozione continua di nuove tecnologie, inclusa la generazione e l’uso di dati. Tutte cose che troppe PMI non hanno. Dopo la pubblicazione dell’ultimo Rapporto Censis, ci si chiede come possa il piccolo imprenditore andare avanti, lavorare ogni giorno – inclusi sabato e domenica – in un Paese sempre più pessimista e incapace di alzare lo sguardo. Nella patria di Giacomo Leopardi, sembra che sia stata costruita una siepe alta 200 metri che impedisce di mirare “’l’orizzonte”. Come ha ripreso Andrea Panato[ix] nel suo libro RestartUp (consigliato come lettura natalizia), per gli imprenditori è opportuno “ampliare gli orizzonti per restringere il focus” (Eric Ries, cit.).
Ci vogliono imprese meritocratiche, con al timone gente preparata. I manager di talento preferiscono lavorare in una società quotata, dove sanno di poter essere valorizzati al meglio, e sono meno disposti a lavorare in una PMI, dove il ‘soffitto di vetro’ si fa sentire in modo rilevante, posto che i membri della famiglia vogliono mantenere le redini dell’azienda. Tutto ciò ha sinora portato l’impresa a non potersi avvalere di management all’altezza. Nulla di nuovo, siamo in Italia. Come soleva ripetere Indro Montanelli, “Il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto”. Tuttavia, un circolo virtuoso è possibile: è dimostrato che aziende guidate da imprenditori e manager più istruiti tendono a selezionare lavoratori a loro volta più istruiti. Se il capo azienda è laureato: 1) l’impresa ha una quota di laureati tripla rispetto alle altre imprese; e 2) c’è una maggiore propensione ad assumere un manager esterno alla famiglia.
Twitter @AMagnoliBocchi @beniapiccone
Linkedin Alessandro Magnoli Bocchi
NOTE
[i] Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Commissione dell’Unione Europea (Ue), nei prossimi due anni il prodotto interno lordo (Pil) dell’Italia crescerà meno dello 0,5 per cento all’anno (Ocse: +0,2 nel 2019; +0,4 nel 2020; e +0,5 per cento nel 2021).
[ii] Imprese attive nel ‘settore commerciale non finanziario’ (non-financial business sector), con un giro d’affari annuo inferiore ai 50 milioni di euro.
[iii] In Italia, le PMI: 1) sono più di 5 milioni (sui 25 milioni dell’ Ue-28), e rappresentano il 92 per cento delle imprese attive; 2) danno occupazione a oltre 15 milioni di persone, l’82 per cento della forza lavoro (media Ue: 66.6 per cento, media OCSE: 60 per cento); e 3) generano un fatturato complessivo di 2.000 miliardi di euro. Inoltre, su 3,8 milioni di imprese, sono meno di 3.000 quelle che hanno più di 250 dipendenti. Le “microimprese” – la maggioranza – hanno meno di 10 dipendenti.
[iv] De Rita: citato in Piccone B.A., L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti, Il Sole 24 ore, 2019.
[v] Giunta e Rossi: citato in Piccone B.A., L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti, Il Sole 24 ore, 2019.
[vi] Schivardi e Torrini: citato in Piccone B.A., L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti, Il Sole 24 ore, 2019.
[vii] Zingales: citato in Piccone B.A., L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti, Il Sole 24 ore, 2019.
[viii] Forse un altro grafico rende meglio l’idea (Figura 3), ed è più accattivante, perché tratta il corteggiamento. Come nel caso della Figura 2, in teoria esiste una correlazione positiva tra: a) personalità – definita nello spettro tra “antipatico” (jerk) a “gentile ed empatico” (sweetie); e b) bellezza fisica – definita nello spettro tra “non attraente” (not) a “attraente” (hot). In altre parole, più una persona è ‘bella dentro’ e più è bella anche ‘fuori’, e viceversa: è il mito della bellezza esteriore ed interiore, o καλοκαγαθία, di greca memoria. Nella Figura 3, ogni cerchio nero corrisponde a un possibile partner. Sfortunatamente per noi, alcuni di questi individui sono al di fuori della nostra portata (area rossa) mentre altri non ci interessano (area blu). Ancora una volta, una volta sottratte le aree blu e rosse, rimane una “correlazione negativa”, stavolta tra bellezza fisica e bellezza morale. L’area bianca rappresenta i possibili partner disposti ad uscire con noi: i più attraenti dal punto di vista fisico risultano i più antipatici, mentre i meno belli sono anche i più simpatici. In altre parole, il “mercato degli incontri” è affollato nella parte bianca, e si crea un trade off tra bellezza fisica e bellezza morale, che divengono negativamente correlate (Figura 3). Fuor di metafora, le imprese devono fare di tutto per apparire “hot” e “sweetie”, per convincere i migliori talenti a far parte del team.
Figura 3: Al “mercato degli incontri” le persone più attraenti sono le più antipatiche (e viceversa)
Fonte: Brilliant.org, 2019.
[ix] A.A. Panato, ReStartUp, Egea Editore, 2019.