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Perché le rivoluzioni sono social ma poi si fanno ancora nelle strade
L’autrice di questo post è Maria Elena Viggiano. Giornalista, segue progetti di internazionalizzazione per le Pmi e di innovazione –
I social occupano una parte preponderante della vita quotidiana e sono ormai diventati l’unico luogo di confronto o scontro tra le persone. Ma è proprio così? Vediamo cosa dicono i dati. Secondo il Global Digital Report 2019 di We Are Social e Hootsuite, ogni giorno la crescita digitale globale segna un milione di persone in più con una media di 11 nuovi iscritti al secondo. Gli utenti sono il 45% della popolazione mondiale, pari a 3,5 miliardi di persone e gli aspetti negativi quali la violazione della privacy o le fake news non fermano questa crescita inarrestabile.
Ci sono 5,11 miliardi di utenti unici di telefonia mobile con un aumento di 100 milioni rispetto allo scorso anno, 4,39 miliardi di utenti internet che segnano un più 366 milioni, 3,48 miliardi di utenti di social media con una crescita di 288 milioni se paragonato al 2018. È interessante notare il comportamento degli utenti che trascorrono una media di 2 ore e 16 minuti al giorno sui social media con variazioni in base al paese: in Giappone solo 36 minuti mentre nelle Filippine 4 ore e 12 minuti. Facebook rimane al primo posto tra le piattaforme più utilizzate, seguita da YouTube, da Whatsapp e da WeChat, a conferma del fatto che le persone continuano ad utilizzare i social soprattutto per tenersi in contatto con amici e familiari o per scambiarsi informazioni con altri utenti.
Nonostante ciò gli ultimi accadimenti mondiali dimostrano che il digitale non ha affatto sostituito la necessità di uno spazio fisico come posto di incontro e le piazze continuano ad essere il luogo di aggregazione prescelto per la costruzione dell’identità collettiva. Le rivoluzioni sono guidate dai social media ma poi la tendenza globale è che prendono forma nelle strade. Ne è un esempio Hong Kong dove un fiume di manifestanti ha iniziato una protesta contro un emendamento della legge sulle estradizioni che nel corso del tempo si è trasformata in una dura opposizione alle ingerenze di Pechino assumendo così una forte connotazione politica. In Cile un milione di manifestanti ha sfilato contro il governo. La protesta, iniziata dopo l’entrata in vigore dell’aumento del prezzo del biglietto della metro a Santiago del Cile, ha posto l’accento sulle forti diseguaglianze sociali che riguardano anche il sistema pensionistico e la sanità sempre più privatizzata.
L’Italia non è esente da questo clima di dissenso politico. Il movimento delle sardine è sceso in piazza a Bologna a novembre contro la Lega e il suo leader Salvini, da allora un fitto programma di manifestazioni in diverse città italiane continua a raccogliere migliaia di persone. Dunque qual è il rapporto tra le piazze ed i social media? Facebook e Twitter rendono più semplice l’organizzazione delle manifestazioni e più veloce l’aggregazione nelle strade. Le persone hanno più strumenti per comunicare, ognuno diventa un megafono della protesta amplificando e moltiplicando le informazioni attraverso video, immagini e parole anche fuori dal paese in cui i fatti accadono.
Non è un caso che i social sono un termometro della censura. In Iran durante le proteste in centinaia di città per il caro benzina, è stato sospeso l’accesso ad internet per proibire agli iraniani di diffondere le notizie sulle violenze in corso nel paese, censura aggirata grazie all’uso di Vpn cioè di reti private virtuali che stabiliscono connessioni remote cifrate. I social sono fondamentali per un mondo sempre più connesso in tempo reale ma le rivoluzioni digitali mostrano alcune criticità nell’impatto politico e geopolitico. Le proteste in corso nel mondo nascono dal sentimento comune di contrapposizione ai sistemi governativi ma una aggregazione organizzata tramite social non fa emergere la figura di un leader in grado di negoziare o raggiungere compromessi con le autorità costituite. Ciò aumenta le possibilità di un fallimento di questi movimenti di protesta e la mancanza di una leadership potrebbe avere come effetto il rafforzamento dei regimi più autoritari.
Un esempio è la Cina che ha avviato una serie di ritorsioni a causa della forte ingerenza americana nella politica interna cinese, a seguito dell’adozione da parte degli Stati Uniti di una legislazione a sostegno dei manifestanti di Hong Kong. I social poi diventano il terreno di scontro e di dibattito delle problematiche internazionali, con un tweet Trump è intervenuto sulla censura iraniana denunciando la chiusura di internet in Iran. Neanche i big tech sono esenti dal coinvolgimento in questioni geopolitiche: il Dipartimento di Stato Usa ha sollecitato Facebook, Twitter ed Instagram a sospendere gli account dei leader del regime iraniano fino al ripristino della rete.
Twitter @mariaelenaviggi