categoria: Res Publica
Isveimer e Ventriglia, alcune utili note prima di parlare di banca pubblica
Per mascherare agli occhi dell’Unione Europea il salvataggio della Banca Popolare di Bari, il governo ha messo all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri la costituzione di una Banca Pubblica di Investimento. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha puntualizzato al Sole 24 Ore che i margini per destinare parte dei 900 milioni destinati alla Popolare di Bari alla “Banca del Sud” “ci devono essere”. E ha proseguito: “In ogni caso una cifra importante sarà destinata alla nuova banca pubblica per gli investimenti, sarà un altro punto del nostro programma, uno strumento riconosciuto istituzionalmente in grado di contribuire in modo diretto al rilancio dell’economia italiana, soprattutto, e che rappresenta un’opportunità di carattere strategico”.
Urge allora fare un excursus storico a beneficio dei lettori di modo da renderli edotti che una Banca pubblica per gli investimenti al Sud c’è già stata. SI chiamava Isveimer, Istituto per lo Sviluppo Economico dell’Italia Meridionale – fondato nel 1938 – controllato dal Banco di Napoli e dalla Cassa per il Mezzogiorno, a loro volta controllati dallo Stato, messo in liquidazione nel 1996 perché in un solo anno si era mangiato l’intero patrimonio con una perdita di 607 miliardi di lire.
Chi è stato uno degli uomini più potenti e determinanti nel mondo del credito meridionale? Certamente Ferdinando Ventriglia, “o’ professore”, dominus di Banco di Napoli e Isveimer.
Si narra che quando il perito (nominato per la valutazione di un investimento) si recava sul luogo dell’insediamento industriale, chiamava da un telefono pubblico la sede Isveimer per comunicare “Ce sta’”; come dire, questa volta lo stabilimento esiste, non è la solita invenzione sulla carta, l’ennesimo gioco delle tre carte. Ventriglia era solito dire ai suoi interlocutori: “Per chiedermi i contributi mi chiamano perfino quando me ne sto chiuso al cesso”.
Ma certo, la sua sovrabbondante contiguità con la politica ne faceva un Re indiscusso, un monarca di tempra borbonica, a cui tutti si rivolgevano per ottenere l’agognato credito, anche senza valutazione del merito (sappiamo che il Banco di Napoli è finito molto male). Quando tra il 1975 e il 1977 Ferdinando Ventriglia fu chiamato dal ministro Emilio Colombo (meno male che non venne nominato governatore della Banca d’Italia, anche grazie all’opposizione di Ugo La Malfa dopo la nota sparizione della “lista dei 500”, depositari di denari presso la svizzera Finabank di Sindona) a fare il direttore generale del Tesoro, il mantra del keynesismo “all’italiana”, ossia spendendo senza alcuna logica (Marcello de Cecco, cit.), proseguì senza turbamenti.
In una lettera – 5 aprile 1976 – indirizzata al duo Colombo-Ventriglia, con in copia il presidente del Consiglio Aldo Moro, il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, liberale autentico e unico critico della crescita vorticosa della spesa pubblica corrente, scrisse: “La Banca d’Italia ha dunque operato con il vincolo di finanziare un disavanzo del Tesoro che si è rivelato più che doppio rispetto alla stima effettuata dai suoi uffici in ottobre”. E ancora, ecco il Baffi sferzante: “È indispensabile analizzare le cause che, accumulandosi nel volgere degli anni, hanno condotto l’economia italiana allo stato di estrema debolezza nella quale ha affrontato la congiuntura degli ultimi mesi. Elementi quali l’abnorme disavanzo del settore pubblico, lo scadimento della spesa pubblica…, l’elevato indebitamento verso l’estero, sono chiaramente squilibri di fondo giunti ora chiaramente in superficie” (Archivio Storico della Banca d’Italia, Carte Baffi, Governatore Onorario).
Nel volume Confiteor di Massimo Mucchetti, il banchiere Cesare Geronzi si esprime così: “Nel 1980, dopo il terremoto dell’Irpinia, l’inquinamento della camorra aveva trasformato il Banco di Napoli in una cloaca. Ero vicedirettore generale (lo chiamò con sé Rinaldo Ossola, proveniente da Bankitalia, ndr). Cercammo di cambiare registro. Ma avevamo contro la città e l’intera Campania, dove dominavano Silvio Gava e il figlio Antonio, mentre cominciava a brillare anche la stella di Ciriaco De Mita. Il loro banchiere di riferimento era Ferdinando Ventriglia (“soprannominato il Viceré”, dice Mucchetti, ndr). Ventriglia allora era in Isveimer, che orbitava intorno al Banco di Napoli. La Dc l’avrebbe presto portato alla direzione generale con pieni poteri”.
In Italia siamo fermi al 1976. La classe dirigente è immobile. La politica lotta forsennatamente per vincere le elezioni e, poi quando si trova nella stanza dei bottoni, non è capace non dico di governare, ma neanche di accendere la luce. Baffi, che cercò con tutte le sue forze di fermare il declino (fino a che non finì defenestrato con Mario Sarcinelli, colpevoli di aver messo in moto una Vigilanza uguale per tutti, senza sconti per nessuno) chiuse così la lettera citata del 1976: “Nell’impossibilità di fondare una ripresa su un adeguato volume di riserve e sull’accesso al credito internazionale, più necessario diventa realizzare previamente assetti interni, in materia di bilancio e di dinamica dei redditi, che ci evitino di ripetere l’amara esperienza di questi ultimi mesi (sospensione della lira dal mercato dei cambi nel gennaio 1976, ndr)”.
Per evitare di distrarre ulteriori risorse e di peggiorare ulteriormente i fragili “assetti interni” dell’economia italiana, in assenza di riforme strutturali serie, si eviti almeno di costituire banche di investimento pubbliche che diventerebbero, ne siamo certi, immediatamente feudi della peggior politica, tali da provocare buchi colossali che tocca poi al contribuente coprire con la logica del “too big to fail”: il buco è così grande che le conseguenze sarebbero gravi per l’intero sistema, eludendo il “bail-in”, disegnato dall’Unione Europea dopo la crisi finanziaria per bloccare il circolo vizioso generato dal default delle istituzioni creditizie.
Twitter @beniapiccone