UniCredit, la torta che il governo vuole mangiare e conservare

scritto da il 07 Dicembre 2019

L’autore di questo post è Massimo Famularo, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl) –

Lo scorso luglio, su questo blog avevo provato a suggerire alcune riflessioni a partire dal rilevante numero di esuberi previsto dal nuovo piano industriale di UniCredit. Ora che il piano è stato presentato ufficialmente i nodi vengono al pettine e sono arrivate anche le dichiarazioni di esponenti del governo e dei principali partiti politici.

A fronte di espressioni come “inaccettabile”, “emergenza”, ”non esiste che aziende che fanno utili in Italia annuncino esuberi senza dare alternative” è opportuno fare chiarezza su un concetto elementare che sindacalisti, politici e commentatori superficiali fanno finta di ignorare: non è possibile mangiare la torta e conservarla al tempo stesso (lasciamo perdere la tradizionale e sessista espressione nostrana sulla botte piena e la moglie ubriaca).

Il ceo di UniCredit, Jean Pierre Mustier

Il ceo di UniCredit, Jean Pierre Mustier

Partiamo da uno sguardo complessivo sul sistema bancario e più in generale sulle prospettive dell’intermediazione finanziaria facendo riferimento a un recente report della società di consulenza Oliver Wyman dal titolo particolarmente esplicativo “Banche Italiane su un piano inclinato”. In un mondo caratterizzato da tassi d’interesse bassi o negativi è particolarmente difficile fare utili concedendo prestiti. Per rimanere in piedi è indispensabile rivedere i modelli tradizionali, basati sulla presenza di numerose filiali sul territorio con conseguente elevato numero di dipendenti.

Ad aggravare questo quadro di riferimento non certo roseo si aggiungono le incertezze derivanti dalla congiuntura internazionale, un inasprimento del quadro regolamentare di riferimento e le pressioni concorrenziali derivanti dai nuovi entranti caratterizzati da strutture più leggere ed elevato impiego della tecnologia digitale.

Se pertanto ricorriamo molto meno che in passato alle filiali e al supporto di personale per i servizi bancari e paghiamo di meno il credito, non dovrebbe sorprenderci che gli istituti di credito siano destinati a ridurre il personale. A questo punto è abbastanza logico che i rappresentanti del popolo e dei lavoratori si sentano chiamati in causa per intervenire onde limitare i danni.

A ben guardare, come evidenziato dal blogger Phastidio, l’intervento è già stato fatto poiché:
“Quello che pressoché nessuno dice è che quella riduzione di personale non sarà ottenuta con licenziamenti bensì col naturale turnover, agevolato da Quota 100, ed in caso con ulteriore attivazione del fondo settoriale che gestisce gli scivoli verso il pensionamento”.
Dunque, almeno per il caso di UniCredit, il problema della riduzione del personale appare correttamente indirizzato sotto il profilo degli ammortizzatori sociali. Cos’altro vogliono allora i critici e detrattori del nuovo piano industriale? Vogliono potersi anche tenere una torta che hanno già mangiato.

Come ci insegnano le esperienze del Monte dei Paschi di Siena e delle Popolari venete, intervenire a fronte del dissesto di un istituto di credito di medie o grandi dimensioni è costoso, complesso e ci obbliga a fare i conti con le normative europee in tema di aiuti di stato e di risoluzione degli istituti di rilevanza sistemica (direttiva BRRD) con conseguenze per i dipendenti delle società ben peggiori rispetto a un piano di riorganizzazione realizzato in via autonoma. Pertanto, se una banca si arrangia da sola, senza la necessità di interventi straordinari da parte dello stato o di altre entità indirizzate a questo scopo dal governo, l’impatto negativo per la collettività è più contenuto.

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Riepilogando, esistono 2 alternative:

1- la prima prevede che le banche facciano da ammortizzatore sociale mantenendo occupazione non necessaria, che eroghino credito in maniera non responsabile e che in generale siano gestite in maniera non competitiva- questa strada prima o poi porta al dissesto e comporta una qualche forma di “salvataggio” diretto o indiretto a spese della collettività

2- la seconda prevede che le banche operino secondo economicità, riducendo la forza lavoro, restringendo il credito e razionalizzando l’organizzazione, quando questo si rende necessario per evitare il default – questa strada consente la sopravvivenza, evita costi a carico della collettività e consente il mantenimento di un numero di occupati superiore a quello della prima ipotesi.

UniCredit ha imboccato con successo la seconda strada, peraltro occupandosi di smaltire anche eredità negative come i crediti deteriorarti di Capitalia e Banco di Sicilia. Lamentarsi del fatto che la strategia di risanamento dell’istituto abbia un costo in termini di occupazione è demagogia ipocrita. Tenere in vita aziende morte ha sempre un costo maggiore per la collettività rispetto agli oneri di ristrutturazione per mantenerle vitali finché possibile.

Twitter @MassimoFamularo