categoria: Res Publica
La miniera dei dati al Miur e non solo, la grande occasione di Fioramonti
Un report del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) – pubblicato nel luglio 2016 e poi cestinato – abbozzava una strategia fondamentale per il Paese. Oggi i dati restano sotto il controllo dei servizi studi interni, ma aprire le porte della PA all’analisi dei dati non costerebbe nulla – grazie a tecnologie e metodologie nuove e sicure – e permetterebbe di sviluppare soluzioni innovative per migliorare l’istruzione e la vita dei cittadini. Cosa aspettiamo?
Si fa un gran parlare di big data, ormai da qualche anno. Dando un’occhiata alle statistiche di Google Trends, sembra che l’ondata nel nostro Paese sia partita nel 2012, per poi toccare un picco tra il 2016 e il 2017. Oggi l’argomento è ormai mainstream, e il riferimento ai big data è ovunque, dalla sanità, allo sport, alla organizzazione aziendale. Solo nel mese di ottobre, ben tre università (di Siena, della Tuscia, e di Roma “Tor Vergata”) hanno promosso accordi e iniziative specifiche sull’argomento. In pochi ricordano, tuttavia, che uno dei primi attori a muoversi sul tema (certo in ritardo, ma comunque in maniera sistematica) fu il nostro Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). Nel gennaio 2016, infatti, l’allora Ministro Stefania Giannini lanciò un tavolo di lavoro sui big data che, sei mesi dopo, sfornò un interessantissimo report.
Big Data al MIUR: il tentativo del 2016
Il gruppo di lavoro metteva insieme menti brillanti come quella del professor Fabio Beltram (ex direttore della Normale di Pisa, ora nel Consiglio dell’ANVUR) e di Roberto Torrini (Banca d’Italia, ex direttore dell’ANVUR), e in effetti formulò analisi e proposte molto ricche e circostanziate: dal come integrare questo argomento nei programmi di studio, alle direzioni da intraprendere in tema di potenziamento delle infrastrutture. Soprattutto, l’intuizione vincente era quella di tenere insieme le diverse anime del tema: la domanda di competenze sul mercato del lavoro; i margini di miglioramento per l’università – nel fornire competenze specialistiche – e per la scuola – nel fornire competenze digitali di basi a tutta la cittadinanza del futuro; l’approccio aperto e cooperativo alla ricerca; la valorizzazione dell’immenso patrimonio di dati del MIUR stesso.
Insomma, c’era tutto: le competenze, i numeri, la proposta, la visione di sistema. Peccato che in Italia tale (rarissimo e benedettissimo) approccio spesso equivalga a una ricetta per il fallimento. Così come uscì dal tavolo di lavoro, il report venne presto messo nel dimenticatoio. Nessuna policy è seguita, nessuna strategia, nessuna campagna. D’altronde ce lo ricordiamo il finale del 2016: le battaglie contro La Buona Scuola, l’attenzione sul referendum costituzionale, l’arrivo di Valeria Fedeli a viale Trastevere.
Da grandi database derivano grandi opportunità
Eppure, rendere disponibili i dati delle pubbliche amministrazioni è uno sforzo a costo zero che ha dato frutti eccezionali in molti paesi esteri. In questo video dello scorso luglio, il giovane economista Raj Chetty, figlio di genitori indiani emigrati alla ricerca di migliore fortuna negli Stati Uniti, racconta come ha scoperto “la miniera d’oro” su cui era seduta l’amministrazione pubblica americana. Insieme ai suoi colleghi di Harvard, e grazie alla collaborazione delle istituzioni, Chetty ha messo insieme decine di dataset anonimizzati sui temi più importanti della vita dei cittadini – istruzione, tasse, crimine – creando un vero e proprio hub su cui ricercatori, giornalisti, politici possono visualizzare e elaborare queste informazioni.
Opportunity Insights racconta di come il team stia progressivamente svelando le dinamiche sociali ed economiche dietro un fenomeno complesso come quello dell’uguaglianza delle opportunità negli Stati Uniti. Non solo, grazie ai dati è stato possibile elaborare proposte e innescare un dibattito su politiche come la valutazione degli insegnanti (su cui Chetty ha dimostrato l’efficacia di una valutazione basata sul miglioramento rispetto alle condizioni iniziali degli studenti), i criteri di ammissione delle università, l’effetto di ricevere una buona istruzione primaria e di avere classi più piccole. L’uso dei dati per stimare numeri precisi ha permesso di mettere in luce come l’investimento in questi ambiti abbia ritorni maggiori rispetto a qualsiasi altra politica economica. La ripetizione e la comparazione degli studi e degli esperimenti – questi ultimi celebrati per il Nobel all’Economia 2019 – sta aiutando a far emergere le ricette migliori, e a capirne le interazioni con i contesti.
Il Ministero dell’Istruzione italiano – uno dei più grandi datori di lavoro di tutta Europa, con più di 680mila dipendenti solo tra i docenti – è responsabile di un servizio pubblico fondamentale, e potrebbe trarre immenso giovamento da un’analisi dei propri dati, soprattutto se interagisse con valutatori indipendenti, come i ricercatori accademici, o con altri organi della PA. I dati infatti esistono: ad esempio l’Anagrafe dello Studente permetterebbe di studiare le carriere dei ragazzi dalla culla all’università, fino alla carriera lavorativa se uniti con i dati INPS. Questo aiuterebbe a informare i cittadini sulla qualità delle scuole, isolando statisticamente l’effetto degli istituti dalla semplice fortuna di trovarsi in quartieri migliori. Soccorreremmo così le scuole più in difficoltà, premiando quelle che migliorano. L’utilizzo di questi dati è oggi sporadico e centellinato, quasi sempre a seguito di autorizzazioni difficili da ottenere. Sarebbe invece possibile renderli accessibili in modo sicuro, grazie alle tecniche di anonimizzazione, e a vere e proprie agenzie che si occupano della gestione dei dati amministrativi attraverso punti di accesso portatili, installabili nelle università e nelle istituzioni (si veda ad esempio al CASD francese).
Ci riproviamo?
Al Ministero è sbarcato il professor Lorenzo Fioramonti. Da un lato, il nuovo ministro ha mostrato grande attivismo rispetto al suo predecessore, tra le altre cose richiedendo a gran voce 3 miliardi di fondi per l’istruzione. Dall’altro, ha attaccato (e promesso di rendere facoltativi) strumenti importanti per la valutazione e la raccolta dati sul sistema dell’istruzione, come le prove Invalsi. Perché non accompagnare alla richiesta di maggiore finanziamento una promessa di maggiore trasparenza e innovazione? I dati sono una ricchezza, e utilizzarli per costruire politiche più efficaci è il modo migliore per restituire questa ricchezza alla società. Le alternative sono l’inazione e l’inefficacia (gli esempi abbondano), oppure che gli unici a sfruttare questa ricchezza siano le grandi corporation private. È arrivato il momento di sporcarsi le mani, infilarle nel cestino, e provare a recuperare l’idea di mettere il patrimonio di dati del MIUR al servizio dei cittadini.
Questo articolo è stato scritto da:
Francesco Filippucci frequenta il PhD alla Paris School of Economics. È senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.
Francesco Olivanti. Classe 1993, laureato in Economic and Social Sciences presso l’Università Bocconi. Ora è ricercatore presso gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano. È senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo