categoria: Vicolo corto
Il ministro, Milano e il vizio tutto italiano di criticare quello che va bene
L’autore di questo post è Massimo Famularo, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl) –
Il Ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, si è trovato al centro di una serie di critiche per delle affermazioni sulla città di Milano, fatte durante il convegno “Metamorfosi”, organizzato da Huffingtonpost Italia. Citando letteralmente dall’articolo del giornale che ha organizzato l’evento, il ministro ha detto che “Tutti decantiamo Milano, ma non è la prima volta nella storia d’Italia che è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo, però, oggi questa città attrae, ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae. Intorno ad essa si è scavato un fossato: la sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all’Italia.”
In seguito alle critiche sui social, il ministro ha pubblicato un post su Facebook nel quale chiarisce che non intendeva attaccare Milano ma fare un “ragionamento sull’allargamento dei divari territoriali che riguarda tutto l’Occidente” e tuttavia in questo quadro più ampio ribadisce che “oggi i giovani talenti che vi sono attratti difficilmente restituiscono al Paese l’esperienza professionale e civile che maturano in città. Quanti giovani del Sud che vanno a Milano in cerca di migliori condizioni di vita diventano classe dirigente del Paese?”
Il discorso è piuttosto complesso e si presta a facili fraintendimenti e strumentalizzazioni, è tuttavia possibile leggere con chiarezza un modello di sviluppo economico e sociale di tipo dirigista, che presuppone un rapporto di sudditanza tra individui e istituzioni.
Se Milano è ricca e attraente (il sindaco Beppe Sala dà la sua versione in un articolo sul Sole 24 Ore), mentre il resto del paese è povero e repellente, deve essere colpa di un qualche perfido pianificatore centrale, che ha deciso per una allocazione ingiusta della felicità. Stesso discorso, su più vasta scala, per il divario nord sud, che per essere corretto ha bisogno di un ministro apposito e di apposite politiche, magari anche innovative come il rinnovamento della PA mediante assunzione di 500mila giovani di belle speranze. Se la storia degli ultimi 158 anni dice qualcosa di diverso, sarà colpa del solito destino cinico e baro.
L’idea stessa che “Milano non restituisca quel che attrae come avveniva una volta” mette insieme (a sproposito) da un lato le suggestioni sul “debito” dei ricchi e delle imprese verso lo stato, proprie di una corrente di pensiero che da Mariana Mazzucato a Elizabeth Warren, cerca di blandire i perdenti della globalizzazione e dall’altro un passato idealizzato in cui esisteva meccanismi non ben definiti che consentivano alle campagne di beneficiare del successo delle città.
Proviamo a scostare il velo della retorica e a guardare in faccia alla realtà: in che senso Milano, o per quel che vale le città di successo, non restituirebbero al resto del paese quel che ricevono in termini di capitale umano? Quando i braccianti agricoli andavano in città a fare gli operai, cosa tornava in dietro di più rispetto ad oggi dove i giovani si spostano per fare l’università o per lavora nelle imprese di servizi?
Nel post su Facebook, riferendosi ai giovani il ministro fa l’esempio storico di Raffaele Mattioli e domanda: “Quanti giovani del Sud che vanno a Milano in cerca di migliori condizioni di vita diventano classe dirigente del Paese?”. Verrebbe da rispondergli con altre domande: chi meglio di lui che è giovane (per gli standard italiani), è nato al sud e fa il ministro, dovrebbe poterci dire come si diventa classe dirigente? C’entrerà mica una certa chiusura e autoreferenzialità della classe politica di cui lui fa parte che si alimenta per cooptazione ed è impermeabile ai contributi esterni? Sarà mica il caso di fare autocritica, prima di criticare?
Ma poi, visto che sul banco degli imputati oltre alla città di Milano, ci sono i giovani che in essa si trasferiscono e che contribuiscono al suo successo è lecito chiedere: esattamente cosa dovrebbero restituire e a chi? In aggiunta ai contributi che pagano per mantenere livelli di pensione che non vedranno mai? In aggiunta a una oppressione fiscale ai limiti del tollerabile per mantenere un apparato statale elefantiaco e sovraccarico di strutture parassitarie, che sottraggono risorse ai servizi pubblici essenziali?
Certo, questi individui prima di trasferirsi hanno beneficiato di servizi e formazione assorbendo delle risorse che gli ha messo a disposizione… quello stesso stato centrale verso il quale Milano è creditore netto sotto svariati punti di vista, anche senza menzionare il solito residuo fiscale.
Al netto delle polemiche sterili e delle strumentalizzazioni di circostanza, c’è una visione del mondo per la quale il successo, sia individuale che collettivo, quando non è una colpa da espiare, è un edificio costruito su un terreno altrui per il quale andrà sempre pagato un affitto. L’importo dell’affitto richiesto fa la differenza tra istituzioni estrattive e istituzioni inclusive, secondo la classificazione elaborata da Daron Acemoglu nel celebre libro: “Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty”.
In quest’ottica, dunque, si potrebbe proporre al ministro una diversa chiave di lettura: può darsi che Milano non sia un debitore egoista, che non vuol restituire al paese il capitale umano che attrae (e se la classe dirigente non attinge a quel capitale, dovrebbe fare autocritica), ma semplicemente un esempio da seguire, finché resiste. L’alternativa è ridurre le differenze con il resto del paese rendendo meno attraente la parte che ancora lo è e osservando le nostre risorse migliori trasferirsi all’estero.
Twitter @MassimoFamularo