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Educazione finanziaria in Italia: molte iniziative, pochi risultati, perché?
L’autore di questo post è Marco Gallone, investment manager attivo nel campo della finanza e delle valutazioni d’impresa dal 1989 –
Siamo ai primi di novembre e si è da pochi giorni chiuso il mese dedicato all’Educazione Finanziaria, un’iniziativa promossa dal Ministero dell’Economia e Finanze nel quadro delle attività volte a “migliorare in modo misurabile (sic, ndr) le competenze dei cittadini italiani in materia di risparmio, investimenti, previdenza e assicurazione”.
Per la verità, è da anni che sentiamo parlare di educazione finanziaria: negli innumerevoli eventi organizzati dalle più svariate istituzioni (oltre al Mef, Banca d’Italia, Consob, Ivass, Università, Associazioni di categoria, ecc.), su quotidiani e riviste (specializzate e no), su internet, dove pullulano siti e portali ad hoc sull’argomento. Anche in libreria, sono tante – e alcune molto ben fatte – le pubblicazioni in materia.
E allora, quali sono, ad oggi, i risultati di questo proliferare di iniziative?
Per “misurarli, come dice il Mef, ci siamo letti i resoconti pubblicati nelle ultime settimane: il Rapporto AIPB-Censis su “Gli italiani e la ricchezza”, l’ultimo outlook dell’Abi e l’intervento del Governatore della Banca d’Italia del 31 ottobre scorso (Giornata Mondiale del Risparmio). Ebbene, tutti hanno sottolineato lo stesso dato: che nel portafoglio delle famiglie italiane c’è sempre più cash!
La nostra ricchezza finanziaria – pari, alla fine del 2018, a 4.218 miliardi di euro – è lievemente diminuita in termini reali (-0,4%), rispetto ai livelli pre-crisi del 2008, ma il cash continua ad essere la forma di risparmio più amata dagli italiani; anzi, il suo peso sul totale del portafoglio è sensibilmente aumentato, salendo al 33%: 1.400 miliardi tra contanti e depositi, una somma enorme, che l’Abi ha aggiornato a oltre 1.557 miliardi, al settembre scorso.
Ora, considerato che 1000 euro tenuti sotto il mattone o sotto il materasso per 10 anni sono diventati più o meno 875 (per effetto dell’inflazione che, anche se minima, continua ad esserci) e che analoga sorte avrebbero avuto se lasciati sul conto corrente, perché l’italiano medio tiene cash oltre un terzo dei propri risparmi? E cioè una quota molto più elevata di quella che normalmente si mantiene liquida per i cosiddetti “motivi precauzionali” (fronteggiare eventuali spese impreviste, straordinarie, ecc.).
C’è sicuramente un problema di educazione finanziaria, come confermano le classifiche internazionali che puntualmente collocano l’Italia sempre al di sotto della media degli altri Paesi, anche se alcune – a mio parere – esagerano un po’ (come l’ultima di Standard and Poor’s/Banca Mondiale, che ci vedrebbe al 63° posto nel mondo, dietro a Zimbabwe e Togo).
Sul versante dell’alfabetizzazione finanziaria diciamo però una cosa e cioè che, al di là delle pur lodevoli iniziative sparse qua e là, lo Stato potrebbe sicuramente fare qualcosa di più, ad esempio introducendo in tutte le scuole lo studio dell’economia. E lo dovrebbe fare quanto prima, in un Paese dove la Costituzione tutela esplicitamente il risparmio (art. 47) e assegna allo Stato medesimo il compito di stabilire “norme generali sull’istruzione” (art. 117).
L’economia va insegnata da bambini, perché non riguarda teorie astratte ma i modi in cui l’uomo organizza la produzione delle cose di cui ha bisogno. Se ciò accadesse, certi concetti ancora oggi ignoti a tanti – uno per tutti: la relazione diretta che esiste tra il rendimento e il rischio di un investimento – entrerebbero a far parte del bagaglio culturale di ogni persona mediamente istruita.
Oltre a un problema di educazione finanziaria, alla base della preferenza per il cash, c’è poi anche quel senso di sfiducia e insicurezza verso il futuro, che ci trasciniamo dagli anni della crisi finanziaria globale e dal quale non ci libereremo finché non avremo imboccato un autentico percorso di crescita.
Ma, a mio parere, c’è dell’altro. E questo “altro” deriva da un fatto molto semplice: chi oggi è riuscito a mettere un po’ di soldi da parte, non sa dove metterli, diversamente dal passato quando bastava comprare anche un semplice BOT trimestrale per avere un rendimento decente. Oggi, ricordiamolo, i titoli di stato di durata fino a 2 anni hanno tutti un tasso negativo, solo il 5 anni ha un rendimento positivo ma dello zero virgola qualche cosa e per vedere un misero 1% bisogna allungarsi fino alla scadenza dei 10 anni. Sul fronte delle obbligazioni societarie, il discorso poco cambia, a meno che non si vogliano prendere rischi che però appaiono largamente sproporzionati rispetto sia ai rendimenti che alle scadenze.
Rimangono i titoli azionari ma di questi, evidentemente, gli italiani ancora non si fidano molto. E come dargli torto con una Borsa asfittica come la nostra, in cui le società quotate al listino principale sono all’incirca 250 e poco più di 100 quelle sull’Aim, il listino delle piccole e medie imprese (PMI), un numero infinitesimale anche se lo rapportiamo alle sole aziende con almeno 10 addetti e un fatturato (o un attivo) superiore ai 2 milioni di euro che, secondo Cerved, sono circa 150 mila.
Qui sta il nocciolo del problema.
Nonostante i progressi degli ultimi anni (con l’introduzione dello stesso Aim, dei Pir, ecc.), il nostro mercato finanziario è ancora troppo piccolo rispetto a quello dei principali Paesi europei. Ed è troppo piccolo perché investiamo troppo poco:
– investe troppo poco il settore pubblico, perché nessun Governo riesce a tagliare seriamente la spesa corrente e quindi, per non violare i parametri di bilancio europei, resta poco spazio per gli investimenti, con evidenti conseguenze sullo stato sempre più precario delle nostre infrastrutture;
– investe troppo poco il settore privato perché, da un lato, non abbiamo più grandi imprese capaci di sostenere massicci programmi di investimento e, dall’altro, moltissime PMI che rappresentano, com’è noto, la spina dorsale del nostro sistema produttivo – stanno ancora lottando col coltello tra i denti per uscir vive da una terribile crisi ultradecennale.
Per concludere: continuiamo pure con l’educazione finanziaria e le tante iniziative che ruotano intorno ad essa, che non possono che far bene, come non potrà che far bene il recente riconoscimento, anche nel nostro ordinamento, della figura del Consulente Finanziario Autonomo, deputato a supportare le scelte del risparmiatore con professionalità e in assenza di conflitti d’interesse.
Ricordiamo però, come ha fatto il Governatore della Banca d’Italia il 31 ottobre scorso, che “la via principale per tutelare il risparmio resta la crescita” e che “l’insoddisfacente livello dei rendimenti di mercato è la conseguenza dell’insufficienza degli investimenti rispetto all’offerta di risparmio”.
Urge, pertanto, un grande disegno industriale che renda il nostro apparato produttivo più efficiente e in grado di alimentare un livello almeno accettabile di sviluppo economico, attraverso una pluralità di interventi: per realizzare un adeguato sistema infrastrutturale, per accrescere la competitività delle nostre imprese, per stimolarne la crescita e la loro aggregazione.
Chi è in grado di fare tutto questo oggi come oggi? Non lo so. E il guaio è che quella delineata è l’unica strada da percorrere, altrimenti sapete cosa succederà? Quello che sta già succedendo: che una parte sempre più cospicua dei nostri risparmi se ne va a finanziare imprese estere, come rimarcato nell’ultima Relazione della Banca d’Italia (“attraverso i prodotti del risparmio gestito, alla fine del 2018, le famiglie italiane hanno investito in obbligazioni e azioni emesse da società non finanziarie statunitensi e francesi il doppio di quanto investono in quelle italiane”). Anche perché, con un sistema finanziario come il nostro, in cui gli attori principali (banche, assicurazioni, fondi di investimento) sono controllati da soci esteri (o sotto la loro influenza dominante), sarà un giochetto da ragazzi incrementare i flussi in uscita.
In questo modo, il Paese, continuerà a non crescere. E parlare di educazione finanziaria suonerà come una beffa nei confronti di chi il risparmio non ce l’ha!
Twitter @MarcoGallone_