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La manovra 2020, il bilancio dello Stato e il gioco delle tre carte
L’autore di questo post è Marco Gallone, investment manager attivo nel campo della finanza e delle valutazioni d’impresa dal 1989 –
Manovra di bilancio 2020, dal Sole 24 Ore del 15 ottobre 2019: “Sarà rinviata al 16 marzo 2020 la scadenza del 18 novembre per pagare le imposte dovute dalle partite Iva che hanno scelto di rateizzare il pagamento… Una trovata contabile del ministero dell’Economia che porta a 3 miliardi il tesoretto per la manovra: spostando la data, gli incassi previsti nel 2019 slittano all’anno prossimo e possono essere utilizzati a copertura della legge di bilancio”.
Analogamente, l’inserto economico del Corriere della Sera di qualche giorno fa scriveva: “Quota 100: chi utilizzerà questo canale dovrà aspettare 3 mesi in più prima di cominciare a prendere la pensione. È una delle ipotesi sulla quale lavorano i tecnici del governo…con l’intento di risparmiare almeno 600 milioni nel 2020”. Ipotesi che, peraltro, sembra al momento essere stata accantonata.
Vogliamo parlare poi delle entrate rivenienti dalla famigerata lotta all’evasione fiscale (previste addirittura in 7,2 miliardi nella nota di aggiornamento al Def 2020), più o meno ogni anno stanziate e puntualmente non riscosse? O di quelle, previste nella legge di bilancio dell’anno scorso, riconducibili alla dismissione di beni pubblici? Ben 1,8 miliardi stanziati nel bilancio 2019 ma a luglio eravamo ancora alla pubblicazione dei primi bandi per un valore complessivo di… 145 milioni!
E via di questo passo. Ma non è una novità del governo giallo-rosso: il “window dressing” di bilancio, per anticipare un’entrata o posticipare un’uscita è una tecnica alla quale hanno attinto a piene mani anche i precedenti governi, alla spasmodica ricerca di una quadratura dei conti per rispettare i parametri europei.
Ma com’è possibile, vi domanderete voi? Com’è possibile che il bilancio dello Stato (dico il bilancio dello Stato eh? non della bocciofila di quartiere) si possa fare in questa maniera? Com’è possibile che nemmeno gli inflessibili controllori di Bruxelles si scompongano di fronte a trucchi contabili così plateali? Se l’amministratore di una società privata facesse in questo modo il bilancio (consuntivo o preventivo che sia), omettendo di iscrivere un costo per il solo fatto che lo pagherà l’anno successivo ma intanto ha utilizzato il bene, o anticipando l’iscrizione di un ricavo solo sperato, i soci lo caccerebbero all’istante.
A mio parere, tutto questo sarà possibile fintanto che non passeremo da una logica puramente finanziaria, basata su incassi e pagamenti colti nella fase dell’accertamento (del diritto a incassare) o dell’impegno (a pagare) a una logica economica, incentrata sulla competenza in ragione d’anno di spese e proventi, indipendentemente dalla loro manifestazione numeraria.
Intendiamoci: i due aspetti, quello finanziario e quello economico, sono strettamente connessi e non potrebbe che essere così, dal momento che un costo prima o poi darà luogo a un’uscita e un ricavo, prima o poi, genererà un’entrata. E non v’è dubbio che un bilancio finanziario sarà certamente più adatto per assolvere la funzione autorizzatoria tipica di un bilancio pubblico, ossia quella funzione attraverso la quale il Parlamento autorizza e controlla l’attività dell’esecutivo. E anche un rendiconto o un budget di un’azienda privata potrà utilmente incentrarsi su incassi e pagamenti, quando si voglia tener d’occhio, ad esempio, l’andamento (passato e futuro) del suo indebitamento o la capacità della gestione di generare flussi di cassa.
Se tutto questo è vero, perché quelli sopra velocemente esposti sono concetti noti a un bravo studente di Economia, mi chiedo come mai nessuno si sia mai fatto avanti – non per sostituire, attenzione – ma quanto meno per affiancare al bilancio finanziario un bilancio economico; un bilancio cioè volto a determinare un “dato”, un “indicatore” che consenta di esprimere un giudizio di sintesi sulla situazione economico-finanziaria dell’azienda-Stato; situazione che non può esaurirsi nella mera contrapposizione di entrate e uscite, per giunta manovrabile – come abbiamo visto attraverso semplici artifizi contabili.
È un tema, questo, che richiederebbe una trattazione molto più ampia rispetto ai cenni che possono farsi in un breve articolo ma l’importante, in questa sede, è cogliere l’essenza del problema e la differenza sostanziale tra i due tipi di bilancio.
Il punto centrale della costruzione di un bilancio economico è rappresentato dal trattamento delle spese per investimenti (in infrastrutture, ricerca, sicurezza, ecc.), dal momento che le spese correnti, quelle che si ripetono di anno in anno (stipendi, pensioni, acquisti di beni e servizi, ecc.) sono tendenzialmente di competenza dell’esercizio in cui si manifestano finanziariamente, così come lo sono i ricavi (tipicamente, nello stato, i tributi).
E le spese per investimenti sono anche il nodo dell’annosa controversia tra gli stati membri della UE che vorrebbero introdurre la cosiddetta golden rule¸ per escludere gli investimenti dal computo dei parametri europei e i tecnici di Bruxelles che temono che, per tal via, la spesa pubblica sfugga al loro controllo. Controversia destinata a perdurare fino a che non si entrerà in una logica economica, in base alla quale – per fare un esempio semplicissimo – se tu acquisti un impianto destinato a durare più anni, non devi iscrivere il relativo costo interamente nell’esercizio in cui lo hai comprato ed eventualmente anche pagato ma lo devi ripartire per quote (cosiddette d’ammortamento) su tutti gli esercizi in cui potrai utilizzarlo, per contrapporlo in tal modo ai ricavi che si andranno a conseguire attraverso il suo utilizzo.
Naturalmente, essendo la nozione di investimento pubblico molto ampia dovendosi ricomprendere in essa anche i molteplici investimenti immateriali (in istruzione, formazione, sanità, ecc.) di cui uno Stato, pur alleggerito di tanti compiti rispetto al passato, deve continuare a farsi carico – sarà necessario introdurre appositi accorgimenti, per evitare di cadere anche stavolta in… tentazione. Ne cito, a grandi linee, i più importanti:
– definire il criterio in base al quale distinguere le spese per investimento da quelle correnti. Ad esempio: sono spese per investimento tutte quelle sostenute per fattori a utilizzazione pluriennale e comunque suscettibili di generare entrate tributarie per più anni;
– imporre l’obbligo, all’atto dell’approvazione di progetti d’investimento, di elaborare un motivato piano d’ammortamento con indicazione delle quote di spese per investimento da imputare ai futuri esercizi;
– individuare, per gli investimenti la cui utilità pluriennale è fortemente aleatoria o comunque non determinabile su basi oggettive, durate standard (5, 10, 20, 30 anni) entro le quali completare il processo d’ammortamento.
Molto più semplice è invece il discorso relativamente alle spese e ai proventi correnti. In questo caso, il criterio per determinare la loro competenza in ragione d’anno non potrà che basarsi – come per gli investimenti – sul consumo o utilizzo delle risorse (per le spese correnti) o sul definitivo conseguimento di risorse (per i proventi). In parole povere, se lo Stato nell’anno ha comprato dei beni e li ha tutti utilizzati, il relativo costo dovrà essere imputato per intero all’esercizio, anche se non li avesse ancora pagati, in tutto o in parte; se invece quegli stessi beni li avesse acquistati ma non utilizzati, il relativo costo, per la parte non utilizzata, andrebbe imputata agli esercizi nei quali li utilizzerà. Finito qui, stop ai trucchetti contabili!
Analogamente, per i ricavi. Un’imposta sarà di competenza dell’esercizio nel quale è stato prodotto il reddito sul quale grava l’imposta; qualsiasi manovrina per anticiparne o posticiparne l’imputazione non sarebbe ammessa o comunque non avrebbe alcun senso, in questa logica.
A questo punto, vi domanderete: ma che significato può avere, per uno Stato o un ente pubblico in generale, il risultato di un bilancio costruito con una logica economica?
Sicuramente un significato maggiore rispetto al risultato di un bilancio meramente finanziario che, se positivo, ci dirà semplicemente che le entrate superano le uscite, se negativo il contrario. Un’informazione di ben poco conto, come è evidente, almeno finché tratteremo allo stesso modo le spese per l’acquisto di penne biro da quelle per la costruzione o il rifacimento di un’autostrada e tutte insieme le sottrarremo alle entrate.
E allora ecco che il risultato di un bilancio economico potrebbe rappresentare il fulcro di un ragionamento sulla complessa economia di uno stato, sulla sua capacità di operare in condizioni di equilibrio economico-finanziario e, quindi, sulla sua capacità di perseguire gli obiettivi prefissati in materia di politica economica, sociale, ambientale, ecc.
E la capacità segnaletica di un bilancio siffatto sarà ancora maggiore quando questo bilancio venga inserito ed esaminato nel quadro di un Programma (o Piano) pluriennale. Se, infatti, il singolo esercizio di 12 mesi è già angusto per giudicare l’andamento di una qualsiasi azienda che abbia un minimo di struttura produttiva, costi fissi e investimenti in essere, figuriamoci per un’economia estesa ed articolata come quella di un intero Stato. Molte misure di politica economica o fiscale dispiegano la loro piena efficacia soltanto in un arco di tempo pluriennale: si pensi ai possibili effetti sul Pil di una riduzione delle aliquote fiscali, della costruzione di un’infrastruttura o anche della semplice erogazione di un “reddito di cittadinanza”.
Incastonato nel quadro di un programma pluriennale – che, a sua volta, potrà articolarsi in un programma di medio periodo (a 2/3 anni) e in un programma di lungo termine (fino anche a 15/20 anni) – il bilancio economico diventerebbe anche lo strumento-base per andare a negoziare con i tecnici di Bruxelles la tanto sospirata flessibilità dei parametri imposti dalla normativa europea. Flessibilità che invece di elemosinare attraverso penosi equilibrismi contabili, si potrebbe conseguire a testa alta presentando un programma credibile nel quale il Paese dice:
– cosa intende fare e quali obiettivi si prefigge di raggiungere nel periodo di Piano;
– come riuscirà a “rientrare” nei parametri in caso di sforamento;
– a quali “paletti” intende sottoporsi per monitorare l’osservanza del programma.
Allo stesso modo, solo rispetto a un bilancio economico si spiegherebbe l’assurdo l’obbligo introdotto addirittura in Costituzione, nel 2012 – del pareggio “tra entrate e spese” che, finanziariamente inteso, come abbiamo visto, dice poco o niente. Al contrario, un pareggio economico non sarebbe più soltanto un mero obbligo ma diventerebbe il principale obiettivo del bilancio statale, perché starebbe ad indicare che i proventi dell’esercizio (da tributi, dividendi da imprese pubbliche, ecc.) coprono, oltre che le spese correnti, anche le quote d’ammortamento degli investimenti e che, pertanto, la gestione pubblica è in equilibrio.
Al contrario, un avanzo economico strutturale segnalerebbe un’accumulazione di risorse in capo allo Stato a causa, molto probabilmente, di una pressione fiscale eccessiva che andrebbe quindi ridotta; un disavanzo economico non occasionale, invece, denuncerebbe una situazione di squilibrio tale da richiedere tempestivi interventi, in termini di riduzione di spese e/o aumento di proventi.
Ma, per il gioco delle tre carte, non ci sarebbe comunque più spazio!
Twitter @MarcoGallone_