categoria: Draghi e gnomi
I danni della Brexit: prima, durante e dopo. Spiegati dai numeri
Nel susseguirsi degli allarmi che risuonano fra gli operatori economici preoccupati di una Brexit senza accordo – di recente è toccato all’industria europea automobilistica far sentire la sua voce spaventata – all’avvicinarsi del 31 ottobre, quando l’UK dovrebbe chiudere l’ormai annosa vicenda, si tendono a dimenticare i guasti che il referendum del giugno 2016 ha già provocato all’economia britannica.
Vale la pena perciò scorrere un bel paper diffuso qualche tempo fa dal NBER (“The Impact of Brexit on UK Firms“), firmato da diversi economisti, che ci consente di osservare i danni già subiti dalle imprese britanniche. L’analisi è stata sviluppata sulla base di una survey svolta fra le imprese britanniche. È quindi di natura campionaria. E risulta tuttavia molto istruttiva.
Secondo le stime degli economisti, l’anticipo di Brexit, che dura fino a oggi, avrebbe provocato un calo degli investimenti delle imprese dell’11% nel triennio seguito al giugno 2016. Questa caduta degli investimenti, scrivono gli autori, “suggerisce che la misura e la persistenza di questa incertezza abbia ritardato la risposta delle imprese al voto della Brexit”. Come dire: non sapendo, e per lungo tempo, cosa sarebbe successo, la risposta automatica è stata tirare i remi in barca. Anche questo “rassegnarsi” è stato calcolato e si può osservare dal grafico sotto.
Questo ritrarsi è senz’altro una delle cause del calo della produttività, che sempre il nostro studio stima nell’ordine del 2-5% nel triennio post referendum. Ma la cosa istruttiva è che questo calo è in buona parte è dovuto alla circostanza che le imprese “hanno dovuto dedicare diverse ore a settimana del top management alla pianificazione derivante dalla Brexit”. Una perdita di tempo, generata dal tempo perso dalla politica per risolvere il problema, che ha sottratto tempo alla produzione. La ciliegina sul pasticcio è ben rappresentata dalla conclusione: le aziende esposte alla concorrenza internazionale, quelle più produttive, sono quelle che hanno patito di più gli impatti negativi di questi tre anni.
Poiché l’incertezza sta ancora proseguendo, e anzi si aggrava di giorno in giorno, per completare il quadro del potenziale disastro rappresentato dalla Brexit possiamo scorrere l’ultimo outlook di Ocse che dedica alla prospettive della Brexit senza accordo un approfondimento che vale la pena leggere, pur sapendo che si tratta di congetture. Una cosa però sembra certa: il costo di un no deal sarà salato. Per l’UK, in primis, che rischia di finire in recessione già dall’anno prossimo, ma anche per il resto dell’Europa che con l’UK conclude(va) molti e ricchi affari. C’è da sperare perciò che il buon senso torni ad allignare Oltremanica, pure se di buon senso se n’è visto poco in questi tre anni.
Lo scenario elaborato da Ocse, che conduce ai risultati osservabili nel grafico sopra, presume che si aprano i paracadute tecnico-istituzionali predisposti dai vari governi e dalle banche centrali nell’ipotesi di uscita senza accordo. Perché se non funzionassero, queste precauzioni, i danni sarebbero di gran lunga maggiori. L’osservazione è condotta nel breve-medio periodo.
Il canale più rischioso è ovviamente quello del commercio. Il no deal incorpora l’ipotesi che gli scambi con l’UK saranno regolati con le norme WTO seguendo la regola della miglior nazione favorita (Most-Favoured Nation, MFN). In tal caso il commercio britannico finirebbe nelle maglie delle varie tariffe sia dal lato dell’export che dell’import, senza considerare che l’uscita dall’unione doganale aumenterebbe notevolmente, complicandolo, i costi di passaggio delle merci. Pagherebbero un costo salato anche i servizi che, pur non essendo soggetti a tariffe, dovrebbero adeguarsi a nuove regole.
Sulla base di queste premesse, l’Ocse stima che “nel medio-lungo termine i volumi di esportazioni dell’UK possano declinare fra il 15 e il 20%”. Nell’immediato l’istituto parigino stima un calo dei volumi delle esportazioni dell’8%. Nel medio termine una parte di questo shock dovrebbe essere assorbito dalla svalutazione della sterlina che si stima perderà almeno un 5% del suo valore dopo l’uscita. Anche le esportazione dell’UE verso l’UK sono viste in drastico peggioramento. L’Ocse stima complessivamente un calo del 16% nel periodo di osservazione a causa dei costi più elevati “con gli effetti più gravi subiti dall’Irlanda”. L’impatto sui singoli paesi dipende ovviamente dall’intensità dei legami commerciali che hanno con l’UK. I più penalizzati, perché più interconnessi, a parte l’Irlanda sono l’Olanda, il Belgio, la Germania e la Spagna.
Oltre ai flussi commerciali, ci sono i danni che una minore apertura – perché questo comporta la Brexit senza accordo – provoca a un paese sul dinamismo dell’economia e la produttività. Sempre l’Ocse stima che un calo di quattro punti percentuali di apertura al commercio riduca la produttività dello 0,8% dopo cinque anni e dell’1,2% dopo dieci. Quindi si ipotizzano effetti sul mercato del lavoro, per un presumibile calo dell’immigrazione nel paese, e sul debito del governo, con i premi a termine in salita, che significa debito più caro. Non solo per il governo, ma anche per le imprese. Per queste ultime si ipotizza un premio di rischio in crescita di 100 punti base nel 2020.
Tutti questi eventi concorrono al risultato finale di un Pil in calo di quasi il 2% nel 2020 rispetto allo scenario base, che significa recessione, e investimenti in calo del 9% a causa soprattutto dell’incertezza. Si prevede anche inflazione in salita, spinta dalla svalutazione della moneta, che toglie spazio di movimento a politiche monetarie espansive, che pure potrebbero essere necessarie.
Nell’UE le cose non vanno granché meglio. Il Pil per l’UE a 27 si stima in calo complessivamente dello 0,5%, con vari gradi a seconda del paese, gli investimenti del 2% e l’inflazione dello 0,2%. In sostanza, si abbassa di qualche grado una temperatura economica già abbastanza fredda.
Si presume che banche centrali e governi, a cominciare dal quello britannico, agiscano sul versante della politica monetaria e fiscale per far riassorbire lo shock. Sarebbe sicuramente più saggio e meno costoso prevenirli, piuttosto che curarli. Ma a quanto pare la saggezza non ha nulla a che vedere con questa storia.
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