categoria: Vicolo corto
Cambiamento climatico, meglio miliardi nell’auto elettrica o piantare alberi?
L’autore è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e vice presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) –
Periodicamente si riaccende la polemica sull’origine del cambiamento climatico, che, come tutti i temi divisivi, coinvolge l’opinione pubblica, polarizzandola.
L’ultima occasione è stata una petizione firmata da un gruppo di autorevoli scienziati indirizzata alle massime cariche dello Stato nella quale si chiede “l’adozione di misure di protezione dell’ambiente coerenti con le conoscenze scientifiche, evitando di aderire a politiche di riduzione acritica della immissione di anidride carbonica in atmosfera con l’illusoria pretesa di governare il clima”. Alla petizione ha fatto immediatamente seguito una lettera aperta firmata da un altro gruppo di autorevoli scienziati, che si sono scagliati contro le “false affermazioni sul clima” dei primi.
È evidente che situazioni del genere disorientano l’opinione pubblica: nessuno degli accademici è stato richiamato dai propri atenei, nessuna autorità indipendente ha preso posizione.
Questa circostanza indica che la comunità scientifica non ha l’assoluta certezza che il cambiamento climatico sia opera dell’uomo. Una ragionevole certezza sì, ma un’assoluta certezza no. Tant’è che, al contrario di quanto accade ai medici antivaccinisti, gli scienziati che negano l’origine antropica (umana) del cambiamento climatico non corrono il rischio di perdere il posto di lavoro o i titoli.
Tuttavia, bisogna aggiungere due importanti puntualizzazioni.
La prima è di metodo: parafrasando un film cult degli anni ’80, chi insegue la Verità deve cercare le risposte alle sue domande nella filosofia, non nella scienza.
Alla base della scienza, infatti, c’è la consapevolezza socratica di non sapere. Il metodo scientifico nasce per depurare lentamente le nostre conoscenze dagli errori, non per riempire il nostro bagaglio culturale di certezze. Quello che scopriremo domani metterà quasi certamente in discussione quello che sappiamo oggi.
La seconda è di sostanza: tutte le revisioni del materiale scientifico prodotto negli ultimi 20 anni sul cambiamento climatico hanno evidenziato una netta disparità quantitativa tra le due tesi. Gli studi che negano la correlazione tra l’attività umana e il cambiamento climatico sono una sparuta minoranza, meno del 10%.
Ma cerchiamo di spingerci oltre: siamo sicuri che in questo preciso momento sia così importante avere l’assoluta certezza di quale sia l’origine del cambiamento climatico?
La risposta, per quanto possa sembrare irrispettosa nei confronti dei tanti scienziati che si accapigliano sulla questione da decenni, è no, non ci interessa affatto.
Partiamo da una semplice considerazione: anche se il cambiamento climatico fosse di origine naturale non sappiamo come evolverà.
Per la gran parte della storia del nostro pianeta la temperatura media è stata superiore a quella odierna. Cinquanta milioni di anni fa, mentre si diffondevano i primi mammiferi, il sistema climatico terrestre raggiunse il massimo termico del Paleocene-Eocene, +14 gradi rispetto alle medie del periodo pre-industriale. E comunque il pianeta era ricoperto da foreste tropicali e subtropicali popolate da migliaia di specie animali. Chiaramente, quindi, l’ecosistema terrestre può adattarsi a temperature assai superiori a quelle attuali.
Tuttavia, proprio a causa delle temperature elevate e dell’umidità soffocante, cinquanta milioni di anni fa molte delle piante alla base della nostra catena alimentare non sarebbero potute crescere. Più genericamente, seppur rigoglioso, l’ecosistema sarebbe stato un ambiente ostile sia per la salute umana, sia per alcune delle attività alla base della civiltà, come l’agricoltura.
Anche se il cambiamento climatico fosse di origine naturale, perciò, non significa necessariamente che possiamo conviverci. Anzi. Tutte le estinzioni di massa che hanno caratterizzato l’evoluzione della vita sul nostro pianeta sono state causate da improvvisi cambiamenti climatici. Cambiamenti climatici perfettamente naturali.
Ma questo non è l’unico aspetto a confinare la diatriba sull’origine del riscaldamento globale lontano dalla realtà, nell’iperuranio scientifico.
Cerchiamo di inquadrare il problema come faremmo nella vita quotidiana.
Nelle economie avanzate un decimo dell’attività economica (PIL) è formato da servizi assicurativi.
Assicuriamo qualsiasi cosa: edifici, veicoli, coltivazioni, animali domestici, parti del nostro corpo, persino la nostra stessa vita.
Quando sottoscriviamo una polizza furto-incendio per la nostra auto non lo facciamo perché sicuri che qualcuno proverà realmente a rubarla o a bruciarla.
A spingerci ad assicurarci non è la certezza che un determinato evento si manifesti ma l’eventualità che si manifesti. Le assicurazioni ci permettono di trasformare l’incertezza in certezza.
Per quale motivo, allora, non dovremmo essere preoccupati dalla fitta coltre di incertezza che circonda il sistema climatico terrestre, da cui dipende la nostra sopravvivenza?
È chiaro che stiamo sottovalutando clamorosamente il rischio.
A questo primo paradosso se ne aggiunge un secondo, se possibile ancor più eclatante: non possiamo prevedere quello che non conosciamo.
La teoria del cigno nero, formulata una ventina d’anni fa dal filosofo, matematico, economista, operatore di borsa e polemista Nassim Nicholas Taleb, riconduce i grandi cambiamenti della storia umana a eventi che sconvolgono lo status quo, molto rari e, perciò, imprevedibili.
Parafrasando Taleb, possiamo tentare di prevedere la portata e gli effetti delle piene stagionali – di cui conosciamo i meccanismi fondamentali e abbiamo lunghe serie storiche di dati – ma non possiamo fare lo stesso con le eruzioni vulcaniche, i terremoti, le crisi finanziarie, i conflitti o le pandemie.
Nonostante a posteriori il nostro cervello ci spinga a razionalizzare, a chiederci cosa abbiamo sbagliato, perché non siamo stati capaci di prevedere quello che stava per succedere, la verità è molto semplice: non abbiamo gli strumenti per prevedere questo genere di eventi. La nostra mente ci protegge dal terrore che suscitano in noi l’incertezza, il caso e l’ignoto, alimentando la nostra illusione di controllo sulla realtà per non gettarci nello sconforto.
Il cambiamento climatico è un perfetto esempio di cigno nero.
Un fenomeno epocale, a cui nessun uomo ha mai assistito prima, di cui sappiamo molto meno di quello che ignoriamo, che può sconvolgere il nostro ordine naturale, politico e sociale.
E che nessuno poteva prevedere in tempo.
Chi sostiene il contrario dimentica che l’umanità ha mandato in orbita il primo satellite meno di 60 anni fa. O che il primo computer con microprocessore è del 1971. E che, ancora alla fine degli anni ‘70, la comunità scientifica era divisa tra chi metteva in guardia da un repentino aumento delle temperature e chi paventava l’avvento di una nuova glaciazione. Nonostante l’effetto-serra dell’anidride carbonica fosse noto da quasi un secolo, infatti, le temperature globali continuavano a registrare anomalie climatiche negative (erano più basse delle medie di riferimento).
Quando abbiamo iniziato a renderci conto del fenomeno la nostra prima reazione è stata una razionalizzazione infantile, esattamente come illustra Taleb: ci siamo colpevolizzati per quello che non potevamo prevedere e abbiamo iniziato a elaborare modelli di previsione su un fenomeno che non conosciamo a fondo.
Non contenti, abbiamo elaborato anche delle strategie di contrasto molto rigide e dettagliate. Strategie che, oltretutto, non tengono in alcun conto il fatto che nei nostri sistemi sociali tutte le decisioni devono contare su una maggioranza politica che le sostenga. In questo caso una maggioranza strutturale, destinata a resistere decenni. Piani che non si preoccupano di includere l’effetto domino, e cioè la possibilità che il fenomeno inizi a evolvere autonomamente in maniera incontrollabile. Programmi che non prevedono un’opzione B e che, pur mancando gli obiettivi anno dopo anno, non cambiano.
Nel frattempo, le temperature continuano inesorabilmente ad aumentare, dimostrando che le strategie di contrasto non sono efficaci, almeno per il momento.
Quindi, cosa fare?
Dopo aver formulato la teoria del cigno nero, Taleb indica anche la soluzione: l’antifragilità. Se non possiamo misurare il rischio, misuriamo la fragilità. E lavoriamo su quella.
Facciamo un esempio pratico: la BCE sottopone le banche europee a stress test. Che vuol dire? Simula condizioni avverse sul mercato e vede fino a che punto resistono i bilanci degli istituti di credito. Non perde tempo a immaginare cosa potrebbe succedere, anche perché è impossibile prevederlo. Dopo aver analizzato i risultati, l’Eurotower comunica alle banche quali criticità sono emerse e suggerisce delle correzioni.
Oramai tutti i rischi complessi, quelli che non sappiamo prevedere, sono gestiti secondo lo stesso modello: ipotizziamo lo scenario peggiore, simuliamo gli effetti e poi, partendo dai risultati delle simulazioni, cerchiamo di rendere i nostri sistemi meno esposti agli imprevisti.
Tutti, tranne il rischio climatico.
Siamo talmente spaventati dall’incertezza climatica che ci siamo fatti sopraffare dalla paura, ci siamo auto illusi di poter prevedere e controllare quello che non conosciamo.
Chi oggi ci dice di combattere il cambiamento climatico smettendo di mangiare carne e mettendo i pannelli solari sul tetto ci chiede di sottoscrivere una polizza assicurativa sul nostro presente e sul nostro futuro che funziona solo i giorni pari, se non piove e se il vento tira da sud-est.
Abbiamo il diritto, e il dovere, di chiedere di più.
Qualcuno dirà: “Beh, meglio di niente”. Ma a curare una polmonite con i farmaci antitumorali non si ottiene un effetto limitato, si rischia solo di peggiorare la situazione.
Facciamo un altro esempio pratico: gli ambientalisti ci intimano di ridurre le emissioni il più rapidamente possibile. Quali rischi scongiureremmo facendolo? Sorprendentemente, ben pochi. Innanzitutto, non torneremmo indietro. Anche se azzerassimo molto rapidamente le emissioni di origine antropica, infatti, le temperature non solo non inizierebbero a scendere ma, anzi, continuerebbero ad aumentare per almeno una decina di anni prima di stabilizzarsi. Il sistema climatico terrestre, infatti, è una macchina così grande e così complessa che, una volta in movimento, ha bisogno di tempo per fermarsi (inerzia climatica).
Nel frattempo cosa succederebbe alle foreste, agli oceani, al permafrost o al ghiaccio marino, solo per fare qualche esempio? Non lo sappiamo. E questa è un’enorme incognita, dato che ciascuno di questi sistemi complessi è, a sua volta, una componente fondamentale del sistema climatico terrestre: le foreste emettono e catturano anidride carbonica, gli oceani e il permafrost la stoccano mentre il ghiaccio marino influenza la temperatura della superficie terrestre. Per dare una dimensione delle forze in gioco: nel permafrost (terreno perennemente ghiacciato) sono intrappolate 1500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il doppio di quanta ce n’è in atmosfera.
Alle incognite naturali si aggiungono poi quelle politiche, economiche e sociali. La transizione energetica sconvolgerà gli equilibri globali, redistribuendo i vantaggi competitivi. Le economie emergenti contraddistinte da un modello di sviluppo ad alto impatto ambientale andranno incontro quasi certamente a brusche frenate, con conseguenze sociali e geopolitiche a dir poco drammatiche. Ed è tutto da scoprire in che modo reagiranno alle crescenti tensioni i regimi ibridi o le democrazie immature che governano gran parte dei Paesi in via di sviluppo.
Parallelamente, anche nelle economie avanzate si verificheranno forti turbolenze economiche e sociali. La transizione energetica creerà nuove mansioni specializzate ma farà anche perdere il posto di lavoro a tanti. Intere regioni subiranno un graduale declino economico. E, come dimostra il fenomeno Trump negli USA, la deindustrializzazione produrrà un’ondata di protesta, che potrebbe mettere in discussione le politiche di contrasto al cambiamento climatico.
Quindi, ricapitolando: se l’origine del cambiamento climatico è esclusivamente umana, se l’aumento delle temperature non innesca un effetto domino nell’ecosistema, se i Paesi avanzati accettano di rinunciare a una parte del loro benessere per compensare i ritardi dei Paesi in via di sviluppo e se i Paesi in via di sviluppo mantengono le loro promesse, se la transizione energetica non mette in crisi l’economia mondiale e se nei prossimi 50 anni non si materializzano nuovi cigni neri, allora entro la fine del secolo dovremmo riuscire a stabilizzare la temperatura su livelli molto più alti di quelli attuali.
Chi stipulerebbe una polizza così? È chiaro che dobbiamo cambiare strategia. Ma che vuol dire?
Facciamo un ultimo esempio pratico, che illustri cosa vuol dire mettere il rischio al centro delle strategie di contrasto al cambiamento climatico: meglio investire nell’auto elettrica o in un massiccio programma di rimboschimento globale, come suggerisce un paper uscito il mese scorso su Science?
Meglio piantare alberi.
Perché?
– Perché, nella remota eventualità che il cambiamento climatico non dipenda dalle emissioni di origine umana, l’afforestamento produrrebbe comunque un abbassamento delle temperature globali schermando la superficie terrestre dalla radiazione solare, mentre la transizione verso la mobilità elettrica non produrrebbe alcun risultato.
– Perché nel caso in cui, invece, il cambiamento climatico fosse strettamente correlato all’anidride carbonica, il rimboschimento ci permetterebbe di aggredire direttamente il problema, di ridurre la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera riportando le temperature su livelli ottimali, mentre gli investimenti nell’auto elettrica ci assicurerebbero solamente di non aggravare ulteriormente la situazione. Oltretutto, gli alberi catturano l’anidride carbonica indipendentemente da come viene prodotta, quindi ci aiuterebbero a contrastare anche un eventuale aumento delle emissioni di origine naturale legato a un improvviso effetto domino nell’ecosistema terrestre.
– Perché la transizione verso l’auto elettrica funziona (produce una drastica riduzione delle emissioni di origine umana) solo se tutti i comparti industriali coinvolti nella filiera diventano green: le centrali elettriche, gli impianti siderurgici, le miniere di litio etc. Al contrario, l’imboschimento è una soluzione autosufficiente, che produce i risultati desiderati indipendentemente dall’evoluzione degli altri settori industriali.
– Perché l’afforestamento, al contrario della transizione verso la mobilità elettrica, è un’opzione a basso impatto economico, sociale e politico. Crea lavoro, crea reddito, non spacca le comunità tra favorevoli e contrari, non richiede una ristrutturazione industriale planetaria e non alimenta la competizione tra settori economici (lobby dei combustibili fossili vs lobby delle rinnovabili). Quindi è molto più facile da mettere in pratica.
– Perché l’imboschimento non presenta alcuna incognita tecnologica, è una tecnica che padroneggiamo da millenni. Al contrario, la transizione verso l’auto elettrica presuppone un’evoluzione delle tecnologie di stoccaggio dell’energia (batterie) su cui non abbiamo alcuna certezza.
– Perché piantare alberi è più economico che riconvertire il settore dei trasporti e con le risorse che risparmieremmo potremmo individuare ed esplorare soluzioni alternative, un piano B.
Ovviamente questo è solo un esempio e il sottotesto non è “mettiamo una pietra sopra alla transizione energetica”. Le rinnovabili, l’auto elettrica e l’idrogeno sono pezzi di una rivoluzione industriale ed è velleitario pensare di ostacolarne lo sviluppo. Un altro discorso è chiedersi se sia il caso di scommetterci tutte le risorse che stiamo mettendo sul piatto per combattere il cambiamento climatico.
Il punto è quanto siamo disposti a rischiare. Se facciamo male i calcoli, se prendiamo una strada troppo stretta, con un solo “se” di troppo, tra 30 anni in Occidente sarà esploso il consumo energetico per la climatizzazione degli edifici mentre in Africa e in Asia saranno morte milioni di persone per colpa delle nostre scelte.
Cerchiamo di non dimenticarlo.
Twitter @enricomariutti