categoria: Vicolo corto
Perché i profitti sono la vera responsabilità sociale dell’impresa
Ha dato il via ad un ampio dibattito la dichiarazione della Business Roundtable – l’associazione che riunisce i maggiori CEO americani – sui fini dell’impresa privata. Le firme sono molte e di altissimo livello. Da Tim Cook a Mary Barra e Jeff Bezos solo per fare alcuni esempi.
Subito si è innescato un tam tam globale sul superamento della cosiddetta dottrina di Chicago. Non contano solo i profitti, ma anche il benessere degli stakeholder. Senonché, leggendo il documento si rimane abbastanza delusi, come peraltro notato da molti.
Per capirlo è sufficiente leggere i punti elencati.
Iniziamo dal quarto punto, che riguarda maggiormente la responsabilità sociale dell’azienda nei confronti della comunità e dell’ambiente. Sembra richiamare e confutare il famoso articolo del premio Nobel Milton Friedman, che nel 1970 scelse già un titolo eloquente: The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits.
Nel pezzo, pubblicato sul New York Times, l’economista attaccò i manager e le loro opinioni sulla responsabilità sociale dell’impresa, partendo dalle basi del rapporto principale-agente. Il principale è l’azionista, che investe il capitale, mentre l’agente è il manager incaricato dal principale per cercare di garantire la remunerazione di quest’ultimo attraverso la massimizzazione dei profitti.
Secondo Friedman, nel momento in cui l’agente decide di perseguire scopi politici, come incidere sull’inflazione o ridurre l’inquinamento al di là di quanto richiesto dalla legge, sta imponendo una sorta di “tassa”. A pagare questa tassa possono essere gli azionisti (minori profitti), i clienti (aumento dei prezzi), i dipendenti (minori salari), a seconda delle scelte effettuate. E l’imposizione di tasse, riflette Friedman, è una prerogativa assegnata ai governi, eletti attraverso un processo democratico. Una legittimazione che manca ai CEO.
Ecco perché per Friedman l’unica responsabilità sociale dell’impresa dovrebbe essere quella di massimizzare i profitti, a difesa di un’idea di società libera. Infatti, egli contestava il fatto che la demonizzazione dei profitti, partita dagli executives, avrebbe poi minacciato la stessa economia di mercato. I CEO, come individui, sono certamente liberi di compiere qualsiasi gesto filantropico, ma quando agiscono sulla base del ruolo aziendale, le prospettive cambiano.
Il ragionamento di Friedman sembra ancora valido. D’altronde, come molti hanno fatto notare, perché non si dovrebbe partire dalle loro remunerazioni monster per perseguire obiettivi sociali? Con i soldi altrui è più semplice essere filantropi.
Il quinto punto è molto generico. Un impegno per creare valore di lungo termine per gli azionisti. Un messaggio velato contro l’ansia generata dai risultati trimestrali. Dovrebbe essere un principio scontato per qualsiasi azienda.
Vediamo infine gli altri punti del documento. La soddisfazione dei clienti, puntare sulla formazione del capitale umano aziendale, fare affari in maniera etica e corretta con i fornitori. Ma si tratta di punti che dovrebbero essere scontati in caso di mercati concorrenziali. Se ciò non avviene, è forse dovuto al fatto che alcune corporation (tra cui alcune dirette dai firmatari) sono talmente potenti da potersi permettere pratiche scorrette nei confronti di clienti e fornitori ad esempio.
Se ci fosse maggiore concorrenza, non ci sarebbe bisogno di tali dichiarazioni. La mano invisibile farebbe il suo lavoro. Evidentemente però, la concorrenza in alcuni settori latita, mentre aumentano le concentrazioni tra grandi imprese. E ciò va a detrimento di consumatori e fornitori e, in parte, anche dei lavoratori dipendenti. Come evidenziato dal The Economist, dagli anni ’90 due-terzi delle industrie americane sono diventate più concentrate, mentre l’economia digitale tende al monopolio. Sono tanti gli oligopoli, nei settori delle carte di credito, della tv via cavo, delle linee aeree. E non si prospettano riduzioni delle barriere all’entrata.
In definitiva, cerchiamo di mettere assieme alcune riflessioni.
- – Come già scriveva Friedman, le aziende devono rispettare non solo la legge, ma anche le regole etiche. Si tratta di un principio oramai assodato. Tutte le grandi aziende adottano un codice etico, vincolante per tutti i dipendenti, compresi gli executives;
- – i codici etici già impegnano le aziende a comportarsi in maniera corretta nei confronti di tutti gli stakeholders. Pertanto, il rispetto del codice dovrebbe già essere un impegno concreto per i CEO;
- – dichiarazioni come quella commentata, quindi, appaiono più che altro come operazioni di marketing, in una fase in cui la popolarità delle multinazionali è tutt’altro che alta;
- – chiaramente, anche la promozione di iniziative sociali può rappresentare una scelta di marketing, volta ad accrescere il brand reputazionale ed il valore dell’azienda nel lungo periodo;
- – per il resto, a livello generale, è bene che siano i governi -di vario livello- ad occuparsi di tematiche sociali legate al mondo delle imprese, per assolvere le note funzioni politiche;
- – ed una delle prerogative per le classi politiche occidentali, dovrebbe essere quella di favorire la libera concorrenza, che rimane un principale strumento per innescare un circolo virtuoso di benessere per tutti gli stakeholder.
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