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Dalle stelle allo stallo. Una nazione indebitata difende il rischio di credito
Post di Giovanni Pesce, presidente di Fugen Sicav Raif –
Ne abbiamo parlato fino alla noia. Lo spread non è originato da omini brutti e cattivi che speculano su un povero paese senza risorse economiche. E non è neppure un calcolo empirico dove curiose funzioni algoritmiche producono variazioni positive o negative di un numero magico. Lo spread è una polizza assicurativa contro il rischio di credito. E il rischio di credito per un paese che produce più debito che PIL non può che essere legato alla fiducia che i creditori ripongono sul futuro, e non sulla lettura del presente.
La domanda a questo punto è: riuscirà mai un governo a correggere l’anomalia di un debito superiore al PIL? Una risposta potrebbe risiedere nella coerenza, nella solidità e nella perseveranza del soggetto implicato, e cioè del Governo.
Ma se si adopera l’instabilità come metodo per allontanare processi decisionali, certamente dolorosi, al solo scopo di mantenere il consenso, lo spread non può che appesantirsi, poiché la fiducia del creditore viene a mancare.
E non è un problema di deficit, ma di debito.
Le promesse elettorali si basavano sul deficit, che almeno per un decennio avrebbe dovuto essere finanziato dal debito. Questo anche perché la ripresa dei consumi, con le misure proposte in varie tornate sia dal fronte renziano sia da quello pentastellato, potrebbe verificarsi, ma sul lungo periodo. La quota cento porterà forse nuovi posti di lavoro per i giovani, che in ogni caso dovranno fare fronte alle necessità vitali prima di accumulare un risparmio sufficiente a sentirsi stabili economicamente.
Lo slogan peggiore che mi è capitato di sentire in questi anni è “l’Italia è un paese solido, perché la ricchezza delle famiglie è quasi doppia rispetto al debito pubblico reale”. Peccato che il 50% e oltre di questa ricchezza sia dato dagli immobili di proprietà, spesso stimati a valori macroscopicamente distanti dal prezzo di vendita. E peccato che i primi ad accorgersene siano stati gli istituti bancari, che negli ultimi 5 anni hanno dovuto iniziare il sistematico smaltimento di molti immobili incamerati negli anni precedenti, commercializzandoli come NPL. In un mondo ideale, un governo forte, stabile e coerente verrebbe democraticamente eletto senza fare alcuna promessa tranne quella che fece coraggiosamente Winston Churchill: lacrime e sangue.
Ma, appunto, si tratta di un mondo ideale, in cui elettori e candidati sono consapevoli che il problema dell’Italia non è la scarsa durata dei governi, quanto l’evidente inapplicabilità delle promesse elettorali. Una volta eletti, infatti, i candidati devono per forza far fronte al debito pubblico e spesso, davanti alla montagna da scalare, scelgono la resa più o meno immediata e si chiamano fuori. Questo perché la ricerca del consenso ha preso il posto della ricerca di una soluzione.
Sarebbe bello che chi si candida dicesse: “La cosa pubblica è composta da poche semplici cose: la Pubblica Istruzione, la Sanità Pubblica, le Forze Armate, le infrastrutture. I diritti minimi di ogni cittadino. Tutto il resto non può più essere finanziato dalla collettività. Ogni cittadino deve vivere con le risorse realmente disponibili e deve mettere in conto di dovere fare dei sacrifici. Siamo uno dei paesi con più cellulari per famiglia, con auto e mezzi di trasporto privato tra i più nuovi in Europa, siamo il paese delle seconde case e delle vacanze all’estero. Possiamo rinunciare a qualcosa per mettere in ordine i conti dello Stato”.
Ma nessuno lo fa, perché non raccoglierebbe voti.
Ma non siamo stufi di sentire continuamente promesse che poi regolarmente non vengono mantenute?
In Grecia la crisi ha morso pesantemente, e forse si comincia a vedere adesso uno spiraglio. Il lascito della crisi sono vecchie auto, infrastrutture lasciate a metà, gente che palesemente non compera l’ultima moda e negozi che potevano essere in qualunque piccola città italiana forse quarant’anni fa. Questo è il prezzo che stanno pagando per uscire dalla crisi. Non cambiano telefonino in continuazione e non comprano televisori di ultima generazione.
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A questo punto ci si potrebbe domandare se spetta veramente ai politici far cambiare gli usi e i costumi. Io penso di sì, penso debbano prendersi la responsabilità di dire la verità e non di millantare il non mantenibile.
Ci sono paesi in cui lo spread è molto più basso e in cui la collaborazione dei cittadini al mantenimento della cosa pubblica è veramente palese. Mi viene in mente il Belgio, ad esempio, in cui ciò che è pubblico è percepito realmente come collettivo. In Italia a volte ti viene il sospetto che ciò che è di tutti alla fine non sia di nessuno. Non dico che questa sia la soluzione, solo che un minimo di collaborazione nel mantenere ciò che si ha sarebbe già un passo avanti e uno sgravio per lo Stato, in un paese pieno da scoppiare di arte, cultura, bellezze naturali che basterebbe curare e rispettare.
Se si vuole veramente cambiare strada dobbiamo collaborare tutti, non credendo all’impossibile e assumendoci la nostra parte di responsabilità, ognuno per il suo ruolo.
E invece noi? Dalle stelle allo stallo.
Qualche settimana fa i vicepresidenti del Consiglio (forse sarebbe meglio dire ex) entusiasticamente parlavano dello spread in netta discesa, poi si sono lamentati della rapida salita. E quello che proprio nessuno sembra capire è che continuando a perpetrare inarrivabili promesse ci sarà uno stallo, e lo spread li resterà. Perché della crescita in deficit e dell’aumento conseguente del debito pubblico i nostri misuratori del rischio non sanno cosa farsene.