Boom della cassa integrazione, perché il ritorno al passato è un grave errore

scritto da il 16 Agosto 2019

La cassa integrazione fa boom. L’Inps ha rilevato che a giugno il numero di ore di cassa integrazione complessivamente autorizzate è stato pari a 27,6 milioni, in aumento del 42,6% rispetto allo stesso mese del 2018 (19,3 milioni). La cassa integrazione straordinaria è stata pari a 18,8 milioni ore, (di cui 5,2 milioni per solidarietà) registrando un incremento del 99,8% sull’anno. Gli interventi in deroga sono stati invece circa 600mila ore autorizzate, con un incremento del 451,7% rispetto all’anno scorso. Risulta evidente il tendenziale aumento del numero di ore di cassa integrazione autorizzate negli ultimi mesi, dopo anni di trend in discesa (figura 1). A cosa è dovuto il cambio di direzione, dalla condizione del mercato del lavoro o da scelte governative di nuove politiche?

Di cosa parliamo

Data la complessità della materia, è utile cominciare da qualche definizione. La cassa integrazione guadagni (anche Cig da qui in avanti) è uno dei principali ammortizzatori sociali previsti dall’ordinamento giuridico e costituisce un aiuto economico concesso a imprese in difficoltà a fronte di eventi che possono ridurre o addirittura far venire meno la loro capacità di pagare gli stipendi dei lavoratori. Così la Cig integra o sostituisce la retribuzione dei lavoratori sospesi o che lavorano a orario ridotto. Si tratta quindi di uno strumento che permette alle imprese, in attesa di riprendere la normale attività produttiva, di essere sollevate dai costi della manodopera non utilizzata e di evitare (o ritardare) i licenziamenti. La cassa integrazione guadagni può essere ordinaria o straordinaria, a cui si aggiungono i cosiddetti interventi in deroga.

La cassa integrazione è ordinaria quando la crisi dell’azienda dipende da una sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per difficoltà aziendali causate da situazioni temporanee di mercato o altri eventi, comunque transitori (mancanza di commesse, eventi meteorologici, ecc.), non addebitabili al datore di lavoro né ai lavoratori. In questo caso, l’azienda deve assicurare la ripresa dell’attività produttiva in tempi certi. Nel corso del tempo l’ordinaria non ha riportato una variabilità significativa. Infatti, dalle ultime rilevazioni Inps, le ore autorizzate a giugno 2019 sono state 8,1 milioni mentre un anno prima erano state 9,8 milioni (-6%).

La Cig straordinaria, al contrario, nasce per permettere alle imprese beneficiarie di intraprendere operazioni di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale volte a restituire competitività in contesti che vanno oltre uno shock di mercato. Il suo utilizzo è limitato a imprese industriali, artigiane e appaltatrici di diversi tipi di servizi e altre fattispecie a patto che abbiano avuto in media almeno 15 impiegati nei sei mesi precedenti alla richiesta. Differentemente dalla Cig ordinaria, può essere adottata anche in casi di crisi prolungata, seppure non oltre i 36 mesi nel corso di cinque anni. La cassa straordinaria è finanziata dal Ministero del lavoro (a differenza di quella ordinaria finanziata dall’Inps) e questo ne fa – assieme ai criteri selettivi per accedervi – uno strumento più flessibile e in parte discrezionale per la politica rispetto alla cassa ordinaria, che potrebbe quindi utilizzarla anche per influenzare gli esiti elettorali.

Infine, la cassa integrazione in deroga è un intervento di integrazione salariale a sostegno di imprese che non possono ricorrere agli strumenti ordinari, perché esclusi ab origine da questa tutela oppure perché hanno già esaurito il monte orario a disposizione. Nel corso degli ultimi otto anni, sono stati diversi i provvedimenti legislativi emanati dai vari governi in relazione all’attivazione, disattivazione, estensione e protrazione della cassa integrazione straordinaria.

Nell’infografica seguente (figura 2) abbiamo ricostruito il processo evolutivo che ha subito la cassa integrazione in deroga in funzione delle scelte di policy compiute nel corso degli anni dagli esecutivi che si sono succeduti.

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La cassa integrazione in deroga è stata abolita con uno dei decreti attuativi del Jobs Act (148/2015) dopo esser già stata fortemente limitata con la legge Fornero. In controtendenza, il governo giallo-verde, con la legge di bilancio dello scorso anno, ha previsto una proroga della cassa integrazione straordinaria per le aziende che cessano (o sono in procinto di arrestare) l’attività produttiva, senza più far riferimento al vincolo dimensionale dei 100 dipendenti.

Ritorno alle politiche passive?

La reintroduzione della cassa integrazione in deroga permette quindi, senza modificare la normativa, di concedere i trattamenti di integrazione salariale anche a tipologie di aziende e lavoratori che in precedenza ne sarebbero stati esclusi. Di conseguenza, è ragionevole ritenere che l’aumento significativo di ore di cassa integrazione in deroga a partire da inizio 2019 (più del 200 per cento) sia legato all’allargamento della platea dei destinatari e non al peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro (che per ora non si vede).

Il progressivo aumento dell’ultimo semestre delle ore di cassa straordinaria è invece determinato dal crescente numero di tavoli di crisi aperti da inizio anno (il sottosegretario Dario Galli in Commissione attività produttive il 25 luglio scorso ha addirittura ammesso di non conoscerne il numero esatto ad oggi). Dalle big come Whirlpool, Pernigotti e Mercatone Uno fino ad arrivare alle piccole medie imprese, il totale dei lavoratori a rischio continua a salire. Fino ad oggi, gli incontri sulle varie vertenze si sono conclusi nella maggior parte dei casi con la concessione o la proroga della cassa integrazione straordinaria. Il tendenziale aumento della cassa straordinaria dipende quindi in larga parte proprio dalla mancanza di una politica industriale che vada oltre le toppe temporanee alle crisi. Questi atteggiamenti rispondono inoltre a una filosofia opposta rispetto alle politiche messe in campo negli ultimi anni per sostituire progressivamente la cassa integrazione, come la Naspi, il Rei e, soprattutto, il Reddito di cittadinanza e il processo di reinserimento lavorativo per i suoi percettori (che però tarda a prendere forma). Infatti, la cassa integrazione è lo strumento destinato a tenere i lavoratori legati all’impresa nei casi di crisi temporanea, dissuadendoli dal cercar lavoro altrove, per evitare la dispersione delle loro professionalità. Tuttavia, quando risulta esser chiaro che non c’è alcuna possibilità per l’azienda di riaprire i battenti, attivare la cassa significa invece intrappolare i dipendenti in una posizione passiva, legandoli a quella che può diventare una cosiddetta azienda zombie. In una situazione del genere, si simula un rapporto di lavoro ancora esistente, disincentivando i lavoratori stessi dal cercare una nuova occupazione regolare. Se il governo fosse realmente convinto dell’efficacia del Reddito di cittadinanza, la cassa integrazione non dovrebbe esser necessaria se non in situazione emergenziali di brevissimo termine. Evidentemente le certezze scarseggiano anche nei ministeri.

Va però segnalato che mentre scriviamo il ministro Di Maio ha portato in consiglio dei ministri un decreto legge sulla “tutela del lavoro e risoluzione di crisi aziendali” che sembra portare delle soluzioni positive: l’assunzione di circa 20 esperti di crisi aziendali e l’istituzione di un osservatorio per il monitoraggio delle attività produttive col fine di prevenire le crisi d’impresa (anche se bisogna capire come).

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Che fare?

Le ore di cassa integrazione hanno ripreso a crescere dopo quattro anni in cui il trend era stato decrescente. Il comportamento dell’attuale governo è stato dall’inizio molto passivo e sembra mancare un’idea di politica industriale strutturale. Sicuramente va atteso in tal senso il nuovo sistema di politiche attive che sappiamo essere parte integrante del progetto del reddito di cittadinanza.

È importante però rendersi conto fin da subito che nel mercato del lavoro del prossimo futuro, le transizioni occupazionali non possono più essere considerate in funzione di una crisi o di una chiusura aziendale. Saranno invece molto più comuni e ordinarie all’interno di carriere intermittenti fatte di numerosi cambiamenti di natura occupazionale, professionale e contrattuale. Per questi motivi, un approccio meramente emergenziale non può più essere adottato e la semplice reintroduzione dei vecchi ammortizzatori sociali porterà solo a evitare di affrontare il problema, procrastinandolo.

*Co-autori dell’articolo sono Marco Palladino, classe 1993, laureato magistrale in Economia e Scienze Sociali alla Bocconi e ricercatore associato presso Insead, e Matteo Sartori, classe 1993 e laureato magistrale in Economia e Scienze Sociali alla Bocconi, ora studente di dottorato presso il Cemfi di Madrid. Pubblicano il contributo tramite il think tank Tortuga, di cui sono soci.

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