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Europa nel guado tra Usa e Cina. E il futuro spaventoso dell’Italia
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Proviamo a tracciare i punti di alcune vicende di questi mesi: trasferimento all’estero di imprese italiane, ritirata di imprese estere, immigrazione di disperati, emigrazione di talenti, arbitraggi di imprese digitali, crisi dell’informazione, giustizia “creativa”. Dall’unione di questi punti affiora un’immagine inquietante e spaventosa del nostro possibile futuro.
Ci potrebbe rassicurare che siamo comunque in Europa, che è pur sempre la seconda economia del mondo. Tuttavia, anche allargando il campo d’osservazione l’immagine non migliora molto: diversi paesi europei hanno problemi simili ai nostri, mentre altri se ne approfittano speculando sugli arbitraggi (fiscali, di costi, di flessibilità del lavoro e certezza del diritto) per prosperare alle spalle dei primi. Il destino dell’Europa sembra comunque segnato dalla sua irrilevanza in quasi tutti i settori emergenti. E se un organismo è spacciato, lo sono anche i suoi parassiti. Non solo l’Europa non riesce a produrre campioni digitali, ma i suoi campioni “analogici” sembrano destinati a far la fine di pugili suonati. Tutti vediamo come le imprese digitali abbiano stravolto interi settori: editoria, fotografia, musica, viaggi, televisione, taxi, alberghi. Le previsioni indicano che quest’onda continuerà a travolgerne altri. E quali sono i surfisti di quest’onda? Essenzialmente Stati Uniti e Cina.
In un recente incontro pubblico promosso da Vito Crimi e dedicato all’editoria – uno dei tanti settori travolti e stravolti dall’onda digitale – il Capo Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Ferruccio Sepe, osservava come il modello americano fosse molto diverso da quello cinese: il primo si fonda su un sistema di regole di mercato dominato da capitali privati e ispirato al c.d. Washington Consensus, il secondo si fonda sul c.d. Beijing Consensus, cioè un sistema di regole simili, ma dominato dal capitalismo di stato. Si pone quindi un dilemma: come facciamo a recuperare l’onda? Dobbiamo accelerare verso il modello americano, che fino a poco tempo fa sembrava l’unico plausibile, o recuperare un modello con il baricentro spostato verso il settore pubblico?
Alcuni risponderebbero che un dilemma analogo si pose anche nel primo dopoguerra, quando ci confrontammo con stati socialisti che avevano tassi di crescita superiori ai nostri. Ma poi l’economa di questi stati rallentò, fino a collassare sotto il crollo del muro di Berlino. Si ripresentò ancora negli anni novanta, quando ci confrontammo con le c.d. “Tigri Asiatiche”: anche in quel caso molti si chiesero se i modelli di questi stati illiberali fossero più efficienti dei nostri. Ma poi anche le Tigri Asiatiche finirono per rallentare, alcune addirittura collassarono.
Dobbiamo aspettarci una simile evoluzione (rectius, involuzione) anche del modello cinese? Forse no: in fondo la Cina è sempre stata la più grande economia del mondo, tranne che nel secolo scorso, ed è sempre stata illiberale. Inoltre l’amore dell’occidente per il liberalismo è in crisi da tempo: ovunque emergono leader che erigono muri contro la globalizzazione e rivendicano un ruolo più muscolare dello stato nell’economia. Recentemente Vladimir Putin ha addirittura preconizzato la fine del liberalismo.
A ben vedere il liberalismo del Washington Consensus non è mai esistito nemmeno a Washington. È vero che quasi tutte le imprese americane sono sempre state in mano a capitali privati, diversamente da quelle europee. Ma è anche vero che l’egemonia delle imprese americane nei settori più avanzati è sempre stata tributaria di un settore pubblico che le ha sostenute. Internet è nato in ambiente militare, l’industria aeronautica e spaziale ha prosperato grazie al sostegno del dipartimento della difesa e della NASA, molte imprese tecnologiche sono nate nelle (o dalle) università.
I più fedeli all’ortodossia liberale restano gli stati dell’Unione Europea, che è l’unica regione del mondo in cui i governi hanno le mani legate, sia in politica industriale, sia in politica monetaria. D’altra parte l’Unione Europea nasce dall’incubo di due guerre mondiali, proprio con l’obiettivo di limitare la sovranità degli stati. Questo suo spirito si manifesta ancor oggi nella riluttanza della Germania ad assumersi gli onori e gli oneri di una leadership responsabile, nella divisione inconcludente dei poteri della Costituzione italiana, nella stessa governance dell’Unione Europea, che Churchill promosse per neutralizzare le ambizioni degli stati nazionali e non certo per far nascere una nuova superpotenza. Non a caso l’archetipo dell’Unione Europea è il Manifesto di Ventotene, ispirato più dal timore di deriva degli stati nazionali, che dalle magnifiche sorti e progressive dell’Europa. Di tutt’altro segno sono invece la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione degli Stati Uniti, impregnate della retorica ebbra e visionaria di una start-up che vuole cambiare il mondo. Sono le radici che ancor oggi alimentano l’orgoglio patriottico e la leadership degli Stati Uniti nel mondo.
Se il futuro dell’Europa dipendesse dalla riforma del suo impianto liberale, le sue prospettive di successo sarebbero molto basse: il “genio” liberale è ormai uscito dalla lampada e non ci sono le condizioni per farvelo rientrare. Anche perché la governance europea sembra fatta apposta per ottenere il risultato tipico dei giochi non cooperativi: l’equilibrio di Nash nel dilemma del prigioniero. Come si è detto ci sono stati che prosperano sugli arbitraggi fiscali e regolamentari, che mai consentirebbero riforme volte a contrastarli.
Con le mani legate resta quindi poco da fare. Battere i pugni per chiedere un cambiamento non è stato vincente per Alexis Tsipras, né pare possa esserlo per i nuovi leader nazionalisti. Forse sarebbe più utile imitare i paesi che si son fatti “furbi”, dotandosi di una tecnocrazia capace di individuare strumenti tanto insidiosi quanto rispettosi delle regole europee, come i famigerati “ruling” lussemburghesi, i “Residents non Domiciled” inglesi e i “Double Irish Dutch Sandwich” irlandesi.
Ci sono poi frontiere ancora ampiamente inesplorate, come le regole sul trattamento dei dati, che potrebbero rivelarsi decisive per recuperare terreno nell’economia digitale; per esempio quelle funzionali all’accessibilità e alla portabilità dei dati, che potrebbero aiutare a rendere più contendibili i monopoli digitali. Se poi i dati sono il petrolio dell’economia digitale, ce ne sono molti che solo il settore pubblico ha o può raccogliere, come quelli sui trasporti pubblici, sulla salute, sull’ambiente, sul lavoro: renderli fruibili alle imprese potrebbe rivelarsi più utile che destinare fondi al venture capital, allo stesso modo in cui i servizi di intelligence israeliani hanno favorito lo sviluppo di colossi della cyber security molto più dei soldi della Silicon Valley.
A prescindere dalle regole, sarebbe opportuno identificare processi flessibili che consentano di adottarle e modificarle con una certa frequenza, anche alla luce delle trasformazioni continue di questo settore molto dinamico e dell’opportunità di valutare le regole in ragione dei loro risultati, piuttosto che di pregiudizi ideologici.