Il web e i nostri dati personali, meglio guadagnarci o pagare per la privacy?

scritto da il 15 Giugno 2019

L’autore di questo post è Marcello Gruppo, senior sales consultant digital presso The Nielsen Company e allievo dell’executive Mba EMBA Ticinensis –

Siamo sinceri: tutti molto preoccupati circa la protezione della propria privacy online, ma poi quanti di noi intraprendono effettivamente azioni significative per mantenerne il controllo? Pochi.

Il 67% degli americani dichiara di prendere nessuna o limitate misure per evitare che terzi monitorino il proprio comportamento online senza consenso. Il 41% scambia serenamente password con amici e parenti, dato che sale al 56% fra i giovani tra 18 e 29 anni (Fonte: Statista, 2019). Poi non c’è da stupirsi se nel mondo ben il 21% di chi naviga online ha un account email o sui social network hackerato (fonte: IVN, 2019). Meglio non chiedersi la percentuale di quanti ne sono consapevoli…

I grandi player del digitale sembrano quasi osservare divertiti questo comportamento ‘schizofrenico’. Al contrario, la moda del 2019 parrebbe il ‘bullarsi’ dei profitti che tali grandi digital company traggono dell’utilizzo dei dati raccolti su di noi.

Bene, ma qualcuno considera l’ipotesi che la condivisione dei nostri dati personali possa essere già remunerata senza che nemmeno ce ne accorgiamo?

È interessante interrogarsi sulle cause alla base di questa vulnerabilità / incapacità dell’utente nel proteggere e gestire i propri dati. Fra le motivazioni vi è – in primo luogo – l’oggettiva carenza di competenze tecniche necessarie ad evitare che terze parti traggano giovamento dai propri dati in modo poco trasparente; in secondo luogo, gli scarsi risultati che spesso l’utente ottiene dai propri tentativi di difesa, specie se paragonati agli sforzi necessari per attuarli.

Per attirare l’attenzione della popolazione su questo tema e per abbattere le barriere culturali offrendo degli strumenti di reazione, il mercato – con la solita opportunistica rapidità – a dire il vero sta già proponendo alcune soluzioni. Una di queste sono i sistemi di condivisione dei ricavi che gli attori del mercato digitale traggono dall’utilizzo dei dati stessi (data revenue – DR). In altre parole, stanno nascendo una serie di realtà che offrono possibilità di disintermediazione e monetizzazione dei dati che ogni utente genera durante i propri percorsi di navigazione. Ciò avviene aggregando in un unico data base “indipendente” i propri dati personali utilizzati per accedere ai vari servizi digitali. Queste nuove realtà permettono all’utente di trasformare i dati in moneta (virtuale) per effettuare acquisti online (si veda HUDI oppure Weople). Come avere un agente che gestisce i nostri dati e ci permette di ricavarne qualcosa.

Fin qui tutto chiaro e tutto ben noto, specie per gli addetti ai lavori. I punti aperti sono però ancora rilevanti. In una soluzione di questo tipo, a mio avviso viene a mancare un’analisi del valore reale dei dati e uno studio della sua composizione contestualizzato rispetto al mercato digitale nel suo complesso: il fenomeno di raccolta e sfruttamento dati da parte di Editori o Fornitori di tecnologia è intrinsecamente legato ad un meccanismo do ut des: è quindi fondamentale che ci sia un equilibrio di valore tra il servizio e i dati condivisi. Se infatti non v’è dubbio si tratti di un mercato enorme, più complesso è stabilire se sia possibile trovare un modello di business sostenibile dove gli utenti vengono remunerati per il fatto di permettere ad una piattaforma di curiosare nella propria vita privata.

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Un esempio che può aiutare a comprendere concetto e meccanismo, seppur semplificando, è l’approccio “Freemium” alla base del modello di business di molti servizi digitali, fra cui Spotify. Esistono due modalità di accesso a questo servizio musicale:

Free: offre una limitata qualità dell’audio e del servizio e prevede la presenza di pubblicità tra una riproduzione di un brano e l’altra. (109 milioni utenti; dati Q3 2018);

Premium: prevede invece il pagamento di una quota periodica che offre l’accesso alla riproduzione dei brani anche offline ed esclude la possibilità di essere esposti ad ADV (82 milioni utenti; dati Q3 2018).

Spotify ad ogni riproduzione di un brano paga le royalties agli artisti, quindi l’azienda non potrebbe sopravvivere se non traesse un guadagno anche dalle versioni free. Come ottiene questo guadagno il broadcaster musicale se l’utente non deve sborsare neanche un centesimo? “We run ADS” risponderebbe Mark Zuckerberg: in buona sostanza, raccoglie budget pubblicitari mostrando gli spot più affini ai diversi utenti (non premium), basando il processo decisionale “quale pubblicità a quale utente” sulla base dei dati raccolti durante il percorso di fruizione del servizio dei vari individui; la versione free esiste grazie ai ricavi pubblicitari legati all’utilizzo dei dati (142 milioni di dollari q3 2018). La versione premium, invece, non ospita pubblicità, ma trae il suo unico guadagno dal pagamento del servizio (valore di sottoscrizioni pari a 1,2 miliardi di dollari).(1)

Se cambiamo chiave di lettura, possiamo vedere la quota esborsata per il servizio come il prezzo che paghiamo per evitare che i nostri dati vengano utilizzati con lo scopo di influenzare le nostre decisioni d’acquisto. Il prezzo incorpora quindi quattro macro elementi: i margini, il valore del servizio offline, le royalties e il potenziale valore monetario dei dati del singolo utente cui Spotify deve rinunciare.

Starete pensando: ok, tutti sappiamo come funziona Spotify, dove si vuole arrivare? Spesso il valore dei dati è determinato dal servizio di cui stiamo usufruendo: nell’ipotesi di distribuzione del DR in uno scenario a servizio free, il fornitore smetterebbe semplicemente di erogare la prestazione gratuitamente, offrendo esclusivamente una versione premium il cui prezzo minimo corrisponderebbe ai mancati guadagni derivati dalla condivisione del DR. Tornando all’esempio: come potrebbe Spotify Free pagare le royalties agli artisti se dovessero restituire i ricavi (gli unici ricavi) derivati dall’utilizzo dei dati? Le soluzioni di redistribuzione e monetizzazione dei dati sono solo uno specchietto per le allodole. A lungo termine, una condivisione con gli utenti di tutti i ricavi derivati dallo sfruttamento dei dati porterebbe al cambiamento del modello di business degli odierni servizi digitali che, non incassando il DR, aumenterebbero il prezzo per compensare la quota di ricavi cui stanno rinunciando.

Colossi come Amazon stanno traendo i maggiori guadagni proprio dalle attività pubblicitarie basate sui dati di navigazione degli utenti. Michael Olson – direttore generale e senior research analyst di Piper Jaffray – ad Agosto 2018 ha dichiarato «Entro il 2020, ci aspettiamo vendite pubblicitarie di Amazon pari a 16 miliardi di dollari ed entro il 2021 crediamo che sia altamente probabile che i profitti generati dall’advertising superino quelli di AWS» (Amazon Web Services in cui rientra il cloud computing, n.d.r.). Vi chiedo: credete che nel 2020 il prezzo base di Amazon Prime possa essere simile a quello attuale se a fine anno dalla bottom line dovessero sottrarre i 16 miliardi di dollari dei mancati ricavi pubblicitari?

Più che concentrarsi sulla necessità di incassare denaro dalla concessione dei nostri dati, occorre focalizzarci su un problema più complesso: il valore dei servizi che vengono offerti sono proporzionati al DR ottenuto dal fornitore? Gli editori stanno implementando dei servizi di gestione delle autorizzazioni al trattamento dati rilasciate da ogni singolo utente (Consent Management Platform o CMP). Questo sarebbe utile se un prodotto simile fosse disponibile (e di semplice utilizzo) anche dal lato utente. Tramite una CMP potremo controllare le permission rilasciate ad ogni fornitore di servizi e valutare, secondo i nostri parametri, se il servizio erogato è commisurato all’utilizzo che il fornitore fa dei nostri dati. E se le istituzioni imponessero di offrire gratuitamente un servizio di questo tipo? Sarebbe un po’ come obbligare i player digitali ad esporre una sorta di “menù”, un listino prezzi (in termini di dati) dei propri servizi. Tornando all’esempio di Spotify, immaginate che al momento dell’iscrizione ci sia una schermata che quota ogni singolo servizio aggiuntivo sia in termini monetari, sia in termini di dati:

– “ascolto off-line”: XY€ al mese, oppure verrai raggiunto da pubblicità mirata durante la tua sessione di navigazione dell’app;

– “massima qualità audio”: XY€ al mese, oppure i tuoi dati potranno essere sfruttati da terze parti per raggiungerti durante la tua sessione di navigazione su qualsiasi sito.

Si arriva finalmente al punto: forse è proprio questo il modo migliore per stimolare l’utente a porre un’attenzione maggiore in funzione del valore del dato condiviso, mantenere il controllo della privacy e condividere con consapevolezza e reale consenso le informazioni riguardanti la propria identità digitale. Un modo per creare un incentivo basato su maggior consapevolezza, dove la non trasparenza e il fatto che spesso si usufruisce di servizi gratuiti crea una sorta di leggerezza nei comportamenti che attuiamo online. La prossima volta che entrate nel vostro social network preferito date un’occhiata al cartellino del prezzo dei vostri dati. Beh, forse non si può ancora, ma voi intanto sareste pronti a pagare per accedere?

NOTA

1) Fonte Dati Spotify: https://www.dailyonline.it/it/2018/mercato-spotify-q3