L’Italia che sapeva sognare: parla Garziera, tra gli inventori del primo pc

scritto da il 09 Giugno 2019

Ci sono storie che meritano di essere nuovamente raccontate, anche se l’argomento è già stato trattato a sufficienza, tramite decine di articoli, libri, film e documentari da parte di autori sicuramente più autorevoli del sottoscritto. Ci sono storie che ci ricordano una Italia ambiziosa, colta ed innovativa, altruista ed inclusiva, e capace, nonostante le difficoltà, di saper sognare. Ora più che mai abbiamo il bisogno di conoscere e riconoscerci in queste storie, dal loro benefico effetto balsamico, ma anche di saper trarre il giusto insegnamento dagli errori che non hanno permesso al nostro paese di continuare a sognare, abdicando verso una subalternità un po’ vile e molto spesso rinunciataria.

In questo articolo, un figlio di contadini ci parlerà di come sia riuscito a fare la storia dell’elettronica e dell’informatica in Italia e nel mondo, grazie anche all’influenza di uno dei più grandi imprenditori che il nostro paese abbia mai avuto: Adriano Olivetti. La storia è nota, ma mi piace l’idea di poterla raccontare a chi ancora non la conosce, e di volerla ripetere a chi l’ha letta, studiata o vissuta, al fine di capire insieme, grazie soprattutto al contributo di uno dei suoi fautori, dove abbiamo fatto bene e dove abbiamo sbagliato. Buona lettura.

 

Vi presento Gastone Garziera

La storia che vi sto per raccontare è il frutto di una lunga intervista fatta a Gastone Garziera. Per chi non lo conoscesse Garziera, insieme ad altre poche persone della Olivetti, ha contribuito a creare quello che è stato giustamente definito, il primo personal computer al mondo: sì, prima ancora della Apple e della IBM, ma soprattutto prima della Hewlett-Packard (che è stata la prima a copiarlo). Settantasette anni, un viso identico a Babbo Natale (anche se lui preferisce ricordare di quanto assomigliasse più ad Ernest Hemingway), di una lucidità e una memoria invidiabile ad un qualsiasi trentenne, di una simpatia travolgente e soprattutto un grande storyteller.

documentari-programma-101Gastone Garziera

Ho chiesto a Garziera di parlarci della sua entrata e del suo ruolo nella Olivetti, di spiegarci cosa ha funzionato e cosa no, del sogno di Adriano, degli errori fatti dal management, e di quali lezioni portarci a casa per tentare di riprendere quel sogno così bruscamente interrotto. Ma prima di proseguire è necessario fare un piccolo flashback per capire bene, sempre con l’ausilio del Garziera, cosa era l’Olivetti in quegli anni e quanto stesse avanti in Italia e nel mondo.

 

Flashback: l’Olivetti, Adriano e il consiglio di Enrico Fermi

Sostiene Garziera che fino a quel momento l’Olivetti era conosciuta per i suoi prodotti di alta e raffinata elettromeccanica, grazie soprattutto all’ingegno e all’innovazione di Natale Capellaro, entrato all’Olivetti come apprendista operaio, a cui poi fu assegnata la direzione centrale tecnica dei progetti. Per intenderci, è sua la gloriosa Divisumma 14, attualmente esposta al MoMA di New York, come esempio di alto design italiano.

Correva l’anno 1949 quando il premio Nobel della fisica, Enrico Fermi consigliava ad Adriano Olivetti -durante una sua visita negli stabilimenti di Ivrea- di puntare sull’elettronica, perché negli Stati Uniti, dove Fermi lavorava, era la tematica calda del momento. E fu sempre Fermi, ci ricorda Garziera, a consigliare all’Università di Pisa di usare i 150 milioni di lire raccolti inizialmente per la realizzazione di un sincrotrone (che poi fu creato a Frascati grazie alla provincia di Roma) per la costruzione di quella che sarà poi chiamata “CEPCalcolatrice Elettronica Pisana” (qui un bellissimo carteggio storico tra il Magnifico Rettore dell’Università di Pisa Avanzi e il premio nobel Enrico Fermi). In tutto questo è opportuno ricordare il ruolo fondamentale che ebbe il matematico Alessandro Faedo, che dopo aver raccolto i 150 milioni, si adoperò per la nascita e l’evoluzione della CEP, oltre che istituire il CNUCE (Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico) dal quale è poi nato il corso di laurea in scienze dell’informazione.

1949-la-visita-del-grande-fisico-e-premio-nobel-enrico-fermi-agli-stabilimenti-olivetti-di-ivreaEnrico Fermi in visita agli stabilimenti Olivetti (Ivrea)

Interessante notare che anche il Politecnico di Milano, grazie al professor Luigi Dadda, si dotò di un simile calcolatore ma comprandolo direttamente dagli Stati Uniti. Sostiene Garziera che il progetto pisano aveva un’altra valenza perché costruendoselo da soli, poterono acquisire anche il necessario know-how ancora inesistente in Italia. Adriano Olivetti, che era sempre sul pezzo, ci mise soldi e persone su questa iniziativa universitaria, ma poi capì che per motivi di business, era necessario costruirsene una in casa propria, visto che l’università aveva intenti prettamente scientifici. E così fece, mettendo a capo del neonato Laboratorio Ricerche Elettroniche Olivetti, Mario Tchou, un carismatico ingegnere nato a Roma ma di origini cinesi, che all’età di 28 anni già insegnava alla Columbia University di New York. Nasce così la famosissima Elea 9001, per arrivare ben presto alla Elea 9003 che era completamente a diodi e transistor, probabilmente la prima calcolatrice al mondo costruita con questa tecnologia (quelle precedenti avevano ancora parti significative a valvole)

Correva l’anno 1959 e l’Italia, grazie alla gestione visionaria di Adriano Olivetti e grazie alla bravura di Mario Tchou, era la prima potenza mondiale nel campo elettronico/informatico.

 

La tempesta perfetta

Poi accadde la tempesta perfetta, così perfetta che qualcuno ipotizzò l’idea di un complotto statunitense ai danni del nostro paese, ma di questo ne parliamo dopo. Nel 1960 a causa di una emorragia cerebrale, muore improvvisamente Adriano Olivetti e un anno dopo morirà, in un incidente stradale, Mario Tchou, capo della divisione elettronica. In quegli anni la Olivetti subiva una crisi economica, a causa anche dell’acquisizione (ambiziosa ma probabilmente poco accurata) della concorrente statunitense Underwood Typewriter Company. Per questi motivi e anche per delle faide interne alla famiglia Olivetti, che sono emerse subito dopo la morte di Adriano, l’azienda subì una profonda crisi economica che la portò dritta dritta ai cosiddetti “capitani coraggiosi” (definizione che non ho mai inteso del tutto, se non in chiave sarcastica) della Fiat e di Mediobanca, con Cuccia e Valletta. Garziera mi ricorda con voce triste e rassegnata la famosa frase di Valletta, pronunciata agli azionisti FIAT, che per completezza sono poi andato a ricercare: “L’Olivetti è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare”. E così fu fatto: tutta la divisione elettronica dell’Olivetti fu svenduta all’americana GE (General Electric). Tutto tranne un progetto “clandestino” non appetito alla GE, un’idea, l’ultimo sogno che ben incarnava la visione di Adriano, portato avanti con testardaggine dal figlio Roberto e affidata alla sapiente mente dell’ingegner Perotto. Ed è qui, proprio qui, che comincia la bellissima storia di Gastone Garziera.

 

Quando Garziera entrò all’Olivetti

Figlio di contadini, Garziera nasce nel 1942 a Sandrigo, in provincia di Vicenza.  Ancora prima di prendersi il diploma all’istituto tecnico Alessandro Rossi di Vicenza, proprio da quelle parti, all’età di 19 anni, ebbe il primo colloquio con il capo del personale dell’Olivetti, l’ingegnere Nicola Tufarelli. Sostiene Garziera, che quel colloquio lo colpì in particolar modo per l’approccio piacevole e informale, come se fossero conoscenti da anni, chiacchierando di tutto e non solo di aspetti riguardanti il mondo del lavoro. È stato questo, o forse il fatto che l’Olivetti avesse un salario più alto di tante altre aziende (75 mila lire, invece di 60), che tra le 23 offerte di lavoro, il Garziera scelse proprio l’Olivetti. Martedì 17 Ottobre del 1961 (è incredibile come il Garziera ricordi perfettamente tutte le date, mentre io fatico a trovare la macchina parcheggiata la notte prima) entra nella sede Olivetti di Borgolombardo, dopo aver fatto il secondo colloquio direttamente con Mario Tchou. Era un uomo con un forte carisma ma che Garziera associa a quello che vide durante il colloquio: accanto a loro stavano infatti facendo manutenzione preventiva ad una delle prime ELEA, sostituendone tutte le valvole. Rimase piacevolmente stupito perché quelle valvole costavano moltissimo e la Olivetti si permetteva di sostituirle, nonostante fossero ancora perfettamente funzionanti, per continuare a garantire l’alta qualità dei suoi prodotti, motivo di orgoglio per la quale era a tutti nota. Mi ricorda Garziera, con un contagioso sorriso: “Ti rendi conto, Emiliano? Un cesto pieno zeppo di valvole…e pensare che io quando ero ancora all’istituto tecnico mi facevo 15 km in bicicletta per andarmi a comprare una singola resistenza!!”.

I corsi di formazione della Olivetti erano rinomati: 4 mesi di full immersion direttamente con i responsabili delle varie linee; lo scopo secondo Garziera, era quello di permettere ai neoassunti di parlare lo stesso linguaggio, di capirsi tra di loro, di creare comunità, oltre che di imparare le basi dei computer, della fisica e dell’elettronica. C’è un aneddoto interessante che Garziera ci ha tenuto però a ricordarmi più di una volta durante la nostra intervista fiume: siccome quando entrò all’Olivetti il corso era già cominciato da due mesi, lo misero momentaneamente in un gruppo dedicato al “controllo numerico” ma poiché finì presto il compito assegnatogli, si ritrovò a raddrizzare i reofori delle resistenze e dei transistor usati. Da questa esperienza, per lui emblematica, emerge la sua prima lezione: “Quando per un motivo o per un altro ti ritrovi a fare un lavoro a termine (perché nel suo caso era in attesa di essere assegnato al corso, nda), nessuno vuole scommettere su di te, nessuno ti crea un piano di crescita, ci si ritrova abbandonati a se stessi! Questo è il limite insopportabile del lavoro a tempo determinato.”

 

Garziera, il team di Perotto e la gloriosa P101

Finito il corso di formazione, Garziera entra subito nel team dell’ingegner Perotto, che da indicazione di Roberto Olivetti (il figlio di Adriano) avrebbe dovuto creare “qualcosa di elettronico ma che costasse poco, che fosse piccolo e che ovviamente fosse appetibile dal punto di vista commerciale”. Perotto, che all’epoca insegnava al Politecnico di Torino “servomeccanismi e calcolatori numerici”, mise in piedi un piccolo team costituito dall’ingegner De Sandre e il nostro Garziera, che entra per una fortunata coincidenza: doveva sostituire Giuliano Gaiti, in partenza per il militare.

olivettiDa sinistra: Gaiti, Carioli, Arrigotti, De Sandre, Toppi, Faggian, Garziera (foto successiva alla P101)

Comincia così un’avventura che porterà questo piccolo team a rivoluzionare nuovamente, dopo il successo dell’ELEA 9003, il panorama tecnologico a livello mondiale. Furono infatti capaci, dopo soli 3 anni, di produrre quello che sarà poi definito il primo personal computer della storia: per intenderci, anche se con una architettura del tutto differente, che il Garziera non considera giustamente paragonabile, il primo Apple di Steve Jobs fu presentato dopo ben 10 anni. Il computer chiamato Programma 101 (o anche P101, che prima dell’assegnazione del nome commerciale era chiamato “Perottina” in omaggio all’ingegner Perotto) sebbene pesasse circa 30 Kg era comunque così piccolo da poter essere messo sopra una scrivania, rispetto ai mainframe di quel momento che erano grandi come campi da tennis. Sostiene Garziera, che quella della P101 fu una vera avventura nel senso letterale del termine: erano partiti senza sapere se sarebbero mai arrivati a qualcosa di realizzabile, era tutto da inventare, non avevano la minima idea di come realizzare quel sogno di Perotto: la creazione di un oggetto piccolo, economico, e che risultasse così innovativo da trovare una allocazione nelle case delle persone, prima ancora che entrasse la seconda macchina nel loro garage. Avventura anche per le modalità in cui hanno lavorato alla chetichella, per non finire nelle mani della General Electric, tanto che dovettero verniciare le vetrate dei propri uffici per poter lavorare indisturbati e nascondersi da occhi indiscreti, e in una notte ritrovarsi a sostituire il termine “calcolatore” (formalmente venduto alla GE) con “calcolatrice”, risparmiando così la P101 da una sicura cessione alla multinazionale americana.

07____7940De Sandre e Garziera davanti alla P101

Dal punto di vista tecnologico, mi ricorda Garziera, furono molte le novità introdotte nella P101, tutte dettate dai limiti che si erano imposti. Per mantenere ridotte le dimensioni e per ridurre il costo al minimo, decisero di utilizzare, per la memoria, una tecnologia degli anni 40, la cosiddetta “memoria magnetostrittiva“, anche conosciuta come “memoria a linea di ritardo” (non particolarmente performante, ma compatibile con le prestazioni richieste dalla P101). Per salvare i programmi fatti, e quindi non perderli una volta spenta la macchina, decisero invece di usare la “cartolina magnetica”, antesignana di quello che poi sarà il floppy disk, anche se all’epoca questa includeva al massimo 240 caratteri (120 per lato). La tastiera invece rimase meccanica, e su questo la Olivetti aveva certamente qualcosa da dire. Altre novità furono la stampantina associata, che altri ingegneri avevano già fatto e messo in un armadio, perché nessuno ne aveva trovato un possibile utilizzo, e il linguaggio di programmazione, minimo ma pulito nella sua architettura. Tutto questo fece della P101 una calcolatrice “general purpose”, ovvero programmabile e adattabile per ogni uso che se ne volesse fare.

 

La presentazione al BEMA e il successo negli States

15697473_930240183744321_2475836008553186379_nQuesto piccolo team della Olivetti inventò il primo personal computer al mondo (anche il termine fu coniato in Italia prima degli americani: “computer personale”) ma il management della Olivetti, escluso Roberto Olivetti che aveva nel DNA lo spirito innovatore e visionario del padre Adriano, continuava a non crederci. Correva l’anno 1965 e l’Olivetti decise di portare la P101 al BEMA di New York, ma relegandola in una saletta defilata, giusto per far vedere che erano proiettati anche loro verso il futuro. Destino volle che quella saletta fosse la più visitata della fiera, tanto da dover ricollocare la P101 al centro dello Stand e mettere un servizio d’ordine per regolarne l’accesso, perché tutti erano incuriositi di come un computer potesse entrare su una scrivania (si narra che molte persone insospettite cercassero cavi nascosti, credendola collegata a qualche mainframe). La stampa americana la salutò come “il primo computer da tavolo nel mondo”, insomma un successo planetario. Di questa P101 sono stati venduti più di 44.000 esemplari, di cui alcuni finirono alla NASA per facilitare i calcoli di traiettoria per l’atterraggio lunare. L’HP mise in produzione, due anni dopo, un modello (HP 9100) che copiò l’idea della P101, in particolar modo la sua scheda magnetica. Per questo, in fase di contestazione, accettò di pagare una royalty alla Olivetti di ben 900.000 dollari.

 

Dopo la P101: l’ultimissima opportunità perduta

Dopo la P101 la Olivetti creò altri prodotti di successo, vendendo soprattutto negli States, ma era necessario crederci e puntare tutto sull’elettronica, cosa che non fu fatta se non troppo tardi, permettendo agli americani di riprendersi la leadership. Crederci voleva dire – ad esempio- saper puntare sui propri cavalli vincenti, che spesso provenivano ancora dalle idee visionarie di Adriano. Nel 1957 infatti Roberto Olivetti fondò la SGS (Società Generale Semiconduttori) che aveva stabilito una importantissima partnership con l’americana Fairchild che da lì a poco sarebbe stata poi protagonista nella costruzione di circuiti integrati e dei semiconduttori. Con la SGS della Olivetti ci lavorò anche il noto fisico Federico Faggin, che seguì la Fairchild, trasferendosi negli Stati Uniti, quando questa si staccò dalla SGS. Poi il gruppo della ricerca della Fairchild si spostò all’Intel, e il nostro geniale Faggin, proveniente dalla SGS dell’Olivetti , inventò per la Intel il primo microprocessore al mondo. Ad onor del vero, la SGS ha avuto poi un happy end, probabilmente perché figlia della visione illuminata di Roberto e Adriano: si è infatti unita alla francese Thomson, prendendo il nome di ST Microelectronics, per diventare – ad oggi – una delle più grandi ed innovative aziende nella produzione dei componenti elettronici a semiconduttore. Rimane però il dubbio, a Garziera e al sottoscritto, che se l’Italia avesse creduto fermamente nell’elettronica, offrendo al Faggin le stesse opportunità che l’America gli garantiva, probabilmente il primo microprocessore (e quindi il futuro della tecnologia digitale) sarebbe stato italiano.

 

Complotto degli americani o banale subalternità postguerra?

Nella lunga intervista, Garziera mi ha anche ricordato quello che all’epoca in molti pensarono e sospettarono: l’ipotesi di un complotto degli Stati Uniti contro l’Italia. In quegli anni, l’Italia era all’avanguardia su tutto, sarebbe potuta diventare la seconda potenza industriale nel mondo. C’era l’ostinata voglia di Enrico Mattei di rendere l’Italia indipendente negli idrocarburi, c’era l’ingegnere e geologo Felice Ippolito che aveva il sogno di portare il nucleare in Italia, c’era lo scienziato Domenico Marotta che inventò il primo microscopio elettronico e un piano per sconfiggere definitivamente la malaria. E poi c’erano appunto Adriano Olivetti e Mario Tchou con la loro avanguardia nell’elettronica. Dobbiamo ricordare come è andata a finire ad ognuno di loro e soprattutto la coincidenza delle date? Enrico Mattei morì nel 1962 in un attentato aereo;  Domenico Marotta (nel 1962) e Felice Ippolito (nel 1963)  furono invischiati in dubbi processi giudiziari; Adriano Olivetti morì in treno, nel 1960, per una strana emorragia cerebrale (così strana che non gli fecero neanche l’autopsia) e Mario Tchou morì in un incidente stradale, nel 1961. Praticamente in soli 4 anni, dal 1960 al 1963 è sparito, del tutto, il dominio italiano nella tecnologia, nell’indipendenza energetica, nella medicina. A tutto questo si aggiunge il fatto che una volta desecretati i rapporti della CIA si venne a sapere che Adriano Olivetti era attenzionato dall’Agenzia americana almeno da 10 anni. Mi ricorda giustamente Garziera, che all’epoca chi controllava la tecnologia, controllava anche l’industria bellica: banalmente le P101 sono state utilizzate alla NASA per l’atterraggio sulla luna, ma anche dalla forza militare americana durante la guerra nel Vietnam. Chi controlla l’energia (ad idrocarburi o nucleare) controlla il mondo o quanto meno è pericolosamente indipendente. Chi scrive non crede nei complotti a prescindere, Garziera me lo fa solo notare senza dare certezze, De Benedetti lo ipotizza in una intervista, ma obiettivamente sono coincidenze che fanno solo riflettere.

Tornando all’esperienza dell’elettronica in Italia, ai tempi dell’Olivetti, non è certamente colpa dei servizi segreti americani se non siamo stati capaci di credere nell’ambizione, nel sogno, nelle nostre migliori menti che avevamo a disposizione. Fa invece pensare la nostra comprovata subalternità nei confronti degli amici statunitensi, probabilmente a causa del fatto che sono stati loro a liberarci dal nazifascismo, solo 10 anni prima, e sono stati sempre loro, con il piano Marshall, ad investire (anche) sul nostro paese. Conoscendo il pragmatismo americano, tutto ha un costo e in qualche modo dovevamo pagarlo. Altrimenti non si spiega l’ossessione del Valletta di svendere il primato sull’elettronica, che aveva l’Olivetti, alla GE americana. Ma oltre a tutto questo ci sono tante altre ragioni che spiegano sia gli errori fatti, che le giuste decisioni prese in tempo, sulle quali ho avuto l’onore e il piacere di confrontarmi con Garziera.

 

Sette lezioni imparate

Prima lezione: l’uomo prima del profitto. La prima lezione ce la regala, ovviamente, Adriano Olivetti che – con la sua leadership – mette l’uomo e la sua dignità prima del profitto. Ma attenzione, ci tiene a ricordarmi Garziera, così facendo i profitti erano molto più alti, perché quando l’uomo è sereno, felice, ha una casa e riesce a portare avanti una famiglia, è più produttivo, con rendimenti maggiori misurabili matematicamente in fatturato e margini. Adriano pensò a tutto: a dare le case ai suoi dipendenti, ad organizzare navette che li andava a prendere e riportare a casa, a fare gli asili nido in azienda, a garantire il migliore salario possibile, a renderli partecipi della crescita fuori e dentro l’azienda. Garziera per farmi capire meglio questo concetto mi ricorda l’esempio di Natale Capellaro, che è entrato alla Olivetti come apprendista operaio, e che è diventato prima direttore responsabile dell’ufficio progetti, per poi assumere nel 1960 la Direzione Tecnica Centrale. Praticamente l’azienda ha fatto la sua fortuna nazionale ed internazionale grazie alle sapienti mani di un operaio. Lo stesso Garziera, figlio di contadini, non è laureato, e questo ci porta dritti dritti ad una importante conseguenza di questa prima lezione: nella Olivetti esisteva il cosiddetto ascensore sociale, valeva la meritocrazia, anche un operaio o un perito elettrotecnico poteva fare la differenza e arrivare ai massimi vertici dell’azienda.

Seconda lezione: una fabbrica “umana” e non alienante è possibile. Per capire meglio come doveva funzionare una fabbrica, Adriano Olivetti andò negli Stati Uniti per studiarsi l’organizzazione scientifica del lavoro portata avanti da Taylor, e una volta rientrato in Italia lavorò come operaio tra gli operai per capire bene le esigenze dei lavoratori. Quest’ultima esperienza permise ad Adriano di adattare l’impostazione di Taylor con un approccio molto più umano e sensibile ai bisogni dei lavoratori, riducendo al minimo l’alienazione da catena di montaggio che Taylor e Ford portarono negli Stati Uniti, riducendo in schiavi le persone, con tanto di colletti bianchi che cronometravano i tempi degli operai. Questa impostazione della fabbrica, moderna e visionaria, che metteva le persone al centro di tutto, consigliata da tutti gli attuali studi di management, era portata avanti con orgoglio da Adriano Olivetti ben 70 anni fa e probabilmente, almeno in Italia, è stata ripresa soltanto da pochissime e fortunate eccezioni. La FIAT per intenderci era esattamente all’opposto, fordiana nel DNA e lo è rimasta ancora oggi, nonostante il cambio del nome e la postuma beatificazione di Marchionne. Esattamente per questo motivo i “capitani coraggiosi” (sic!) di FIAT e di Mediobanca, non avevano la minima consapevolezza di cosa avessero tra le mani, quando gli affidarono il compito di risanarla. Sostiene Garziera, che Adriano aveva una ricetta straordinaria per superare le periodiche e fisiologiche crisi finanziare che l’azienda subiva: assumere. Avete letto bene, invece di licenziare per ridurre i costi, l’Olivetti assumeva nuovi commerciali che sapessero vendere meglio i loro prodotti, per aumentare le entrate. Mi ricorda Garziera: “per sanare i conti di una azienda o tagli i costi o ti adoperi per aumentare le entrate. Siccome per Adriano il rispetto per le persone era un punto fermo, non aveva altre alternative”.

Terza lezione: servono limiti per essere innovativi. Porsi dei limiti, dei punti fermi, è sempre stata la carta vincente per ogni progetto di successo. Vale per il rispetto delle persone sopra citato, vale per i processi organizzativi, vale per la tecnologia. Le risorse infinite non hanno mai prodotto innovazione, ma solo tanto spreco. Imporsi costi bassissimi di produzione, dimensioni e peso ridotte, come è stato fatto per la P101, è stata la chiave vincente che ha permesso al team dell’Ing. Perotto, di spremersi le meningi in un continuo brainstorming per far emergere più il pensiero laterale, che la logica diretta e deduttiva.

Quarta lezione: bisogna avere il coraggio di cannibalizzare i propri prodotti. Una esortazione che Steve Jobs ripeteva fino alla noia era la seguente: “cannibalizzate i vostri prodotti, altrimenti lo faranno gli altri”. II “capitani coraggiosi” Valletta e Cuccia, temevano che l’elettronica avrebbe cannibalizzato i prodotti “elettromeccanici” che avevano fatto la fortuna dell’Olivetti. E’ vero, probabilmente avevano ragione! Ma in questo modo l’innovazione, e quindi il futuro, sarebbe rimasto nell’azienda, invece di regalarlo agli altri. L’Olivetti è scomparsa anche perché non ha avuto il coraggio di continuare ad innovare, per paura di perdere la leadership di mercato raggiunta.

Quinta lezione: pensare globale. Adriano Olivetti andò a cercarsi il massimo esperto di elettronica (Mario Tchou) direttamente negli Stati Uniti, per portarselo in Italia. All’epoca aveva relazioni dirette con il premio Nobel Enrico Fermi che lavorava negli Stati Uniti. Oltre ad acquisire aziende oltre oceano, faceva accordi con società internazionali ed importanti come la Fairchild. Non esistono limiti geografici quando si parla di grandi aziende. Dobbiamo imparare ad avere il coraggio e l’approccio che hanno tutte le multinazionali.

Sesta lezione: un ferreo controllo di gestione limita l’innovazione. Sostiene Garziera che quando Adriano pensò all’introduzione dell’elettronica nel nostro paese pensava ad un investimento lungo almeno dieci anni. Dieci anni senza un minimo ritorno dell’investimento. Oggi il controllo di gestione delle nostre aziende ha una visibilità di un mese, entro il quale deve essere garantito il giusto rapporto tra costi e ricavi. Così facendo non si riesce ad investire nel futuro, a pensare in grande, si rincorre pragmaticamente il presente perdendo di fatto il futuro.

Settima lezione: manca la Ricerca e Sviluppo di un tempo. La gestione dei conti mensile non permette di investire nella pura Ricerca e Sviluppo. Persone diverse, di età diverse, di culture diverse, tutte insieme a sperimentare, studiare, ricercare nuove soluzioni per nuovi prodotti innovativi, semplici o complessi. Inoltre, suggerisce Garziera di mettere questa ricerca e sviluppo a fattor comune con tutti i reparti dell’azienda e di non dividerli a seconda del mercato o della tipologia di prodotto. Cosa che fece De Benedetti quando prese in mano l’Olivetti, facendole perdere definitamente la capacità di innovare. Sostiene Garziera che all’interno di una azienda, i saperi devono contaminarsi tra di loro, l’informazione deve circolare, ognuno deve poter accedere al lavoro altrui, altrimenti si rischia di perdere tanto tempo prezioso a progettare cose già pensate da altri.

 

Conclusioni

Quando ho chiesto a Garziera cosa consiglierebbe ai nostri ragazzi che sono pronti per entrare nel mondo del lavoro, la sua risposta è stata secca e laconica: lasciare il nostro paese, perché qui non c’è futuro. All’Italia manca la capacità di sognare, di osare, di pensare in grande, ma soprattutto di crederci. Solo guardando all’esperienza dell’Olivetti, eravamo primi nell’elettronica e per mancanza di coraggio non abbiamo perseguito un sogno che avrebbe cambiato definitivamente le sorti del nostro paese. Probabilmente con Adriano ancora in vita sarebbe stato diverso, ma è veramente triste pensare che le sorti di un paese siano in mano a pochissime fortunate eccezioni. E allora cosa fare? Personalmente credo che sia necessario ripartire dalla leadership di Adriano. Studiare e riprodurre la sua visione aziendale, il suo rispetto per le persone, la sua volontà di vedere la tecnologia piegata all’interesse delle persone (e non il contrario). Adriano ci ha insegnato che è possibile coniugare alti ricavi, una forte innovazione e allo stesso tempo una attenta cura delle persone. Insomma ci ha insegnato che può esistere un capitalismo a dimensione umana: se questo non è un sogno…

— Emiliano Pecis su Linkedin