La prosperità e il declino dipendono più dalle regole che dai governanti

scritto da il 05 Giugno 2019

L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –

In questi giorni ho ricevuto messaggi sconfortati e sconfortanti sulla nostra stagnazione cronica, di cui ho scritto recentemente in queste pagine. Alcuni mi invitano a non perdere l’ottimismo della volontà, altri mi indicano pure i nomi di chi potrebbe districarci da questa “matassa senza bandolo” da cui non riusciamo a liberarci da oltre vent’anni.

Forse il problema è proprio questo: noi italiani attendiamo dai tempi della Divina Commedia l’arrivo di un fantomatico quanto improbabile salvatore della patria “ch’a drizzare Italia verrà”, senza renderci conto che la prosperità (o il declino) di una nazione dipende più dalle sue regole, che dai suoi governanti. Tant’è vero che se la sono cavata meglio i popoli che hanno avuto più fiducia nelle regole, arrivando perfino a credere che – per usare le parole del filosofo economista Nassim Taleb – con le giuste regole una manica di idioti produce un mercato efficiente.

D’altra parte il risveglio di un popolo dal mito di eroi e pifferai magici è un percorso lungo e difficile. Anche quando sembra ovvio che certe regole siano più efficienti di altre – come quando si ritiene che la proprietà privata sia più produttiva di quella pubblica – per arrivarci si è dovuto attendere decenni, se non secoli, di verifiche e controprove di opinioni diametralmente opposte.

Le prime conferme sulla produttività della proprietà privata emersero dopo l’introduzione degli enclosure acts nell’Inghilterra del XVII secolo, che abolirono la proprietà pubblica dei terreni intorno alle città. Questo cambiamento di regole determinò un balzo della produzione agricola così straordinario da aver reso l’espressione tragedy of the commons un mantra di tutti gli economisti.

Prima di allora nessuno aveva mai sospettato che la produttività agricola potesse dipendere in misura così rilevante dall’introduzione di una semplice regola, il cui successo dipendeva banalmente dall’egoismo congenito di ogni essere umano. Adam Smith fu il primo a stupirsene, descrivendo la relazione fra egoismo umano e proprietà privata come una “mano invisibile” capace di ottimizzare la produzione di ogni bene.

Tuttavia, per arrivare a concludere che la proprietà pubblica non avrebbe potuto essere altrettanto efficiente furono necessari molti altri decenni di controprove delle inefficienze dei sistemi socialisti, che furono la ragione ultima e decisiva dell’estinzione delle teorie economiche marxiste dalla scena politica mondiale.

L’efficacia dei diritti proprietari non dipende tanto dai meriti dei privati, ma dagli incentivi che ne orientano i comportamenti e dalla selezione automatica “schumpeteriana” delle imprese vincenti, molto simile a quella biologica e naturale, la cui teoria generale è in effetti tributaria – per stessa ammissione di Darwin – delle teorie economiche classiche. Parafrasando il chimico e divulgatore scientifico Peter Atkins si potrebbe quindi dire che quando i diritti proprietari iniziano a competere fra loro, automobili, computer, centri commerciali e cose simili si diffonderanno a tempo debito nelle città. (1)

La proprietà privata moderna si rivelò decisiva non solo nella rivoluzione agricola del XVII secolo, ma anche e soprattutto nella rivoluzione industriale che seguì, con risultati così sbalorditivi che ben presto si pensò di estendere il modello della proprietà delle cose (proprietà reale) anche alle idee (proprietà intellettuale) al fine di incentivare gli investimenti in invenzioni e altre opere d’ingegno.

In un’economia sempre più globalizzata e dominata dall’innovazione i diritti della proprietà intellettuale diventarono ben presto molto più importanti e profittevoli di quelli della proprietà reale. Ciò ha indotto molti economisti a ritenere che l’ideazione di nuovi diritti proprietari fosse sufficiente per assicurare prosperità permanente al genere umano. Questo ottimismo, forse un po’ contraddittorio per la “scienza triste”, ha portato all’ideazione di ingegnosi diritti proprietari con lo scopo di superare e risolvere anche i più annosi problemi delle economie di mercato, tramite manovre di allineamento progressivo degli interessi individuali a quelli generali. Per superare l’inefficienza dei monopoli naturali nacque quindi l’idea di scorporare le reti e di privatizzare i relativi operatori; per imputare i costi dell’inquinamento alle imprese furono ideati i certificati verdi e i diritti di emissione. E così via. L’istituzione di nuovi e curiosi diritti proprietari non ha ovviamente eliminato tutti i mali del mondo, ma in generale ha contribuito a migliorare l’organizzazione delle risorse produttive e il benessere nei paesi dove sono stati introdotti.

La centralità dei diritti proprietari non implica che l’azione pubblica sia meno importante. Al contrario, i diritti proprietari non potrebbero nemmeno esistere senza un’azione pubblica che li tuteli. Tuttavia, anche l’efficienza dell’azione pubblica dipende essenzialmente dalle sue regole di funzionamento e, soprattutto, da quelle del suo sistema giudiziario, che è imprescindibile per dare certezza al diritto e, per l’effetto, far rispettare le regole con il minimo ricorso possibile all’azione pubblica. Pertanto molti ritengono che un sistema di precedenti vincolanti, quale quello di common law, sia più efficiente di un sistema dove i giudici sono liberi di interpretare le norme liberamente.

Più in generale, l’azione pubblica è spesso frenata dall’assenza di incentivi interni al suo buon funzionamento, come invece accade per i diritti proprietari. Per questa ragione nei paesi anglosassoni (soprattutto negli Stati Uniti) furono introdotti – nel solco storico dei diritti proprietari – diritti individuali con il solo scopo di mobilitare i cittadini nel far rispettare importanti regole di ordine pubblico, indipendentemente dal fatto che li riguardassero o meno. Così, a partire dall’istituzione delle famigerate taglie per la cattura dei gangster, furono istituite le derivative actions e le class actions (cioè azioni individuali nell’interesse delle imprese e di una pluralità di soggetti) i punitive damages (cioè diritti di ottenere risarcimenti superiori ai danni subiti con fini sanzionatori) fino alle più recenti tutele dei shareholders activists e dei whistleblowers.

Questa propensione a mobilitare i cittadini nello svolgimento di funzioni pubbliche fu descritta limpidamente dal giurista americano John C. Coffee: “Probabilmente in modo unico il diritto americano fa affidamento sui cittadini per far rispettare importanti disposizioni di legge, che in altri ordinamenti sono attuate principalmente da agenzie governative. Questo sistema di “procuratore pubblico privato” (public private attorney) è legato storicamente al diritto dei mercati finanziari, antitrust e delle azioni surrogatorie di common law, ma istituti simili si sono diffusi recentemente anche nelle azioni di risarcimento di massa in materia ambientale e nelle cause di discriminazione nel lavoro”. (2)

Questo metodo di attuazione delle regole può sembrar strano nella cultura europea, impregnata del mito della “sovranità” dello stato, ma riflette in pieno la cultura americana, che considera lo stato un “servizio” al cittadino, a cui ricorrere in casi estremi per evitare che i ruoli s’invertano. Senza contare che la mobilitazione di un esercito di volontari che persegue interessi pubblici senza costi per lo stato è uno dei tanti vantaggi del pragmatismo anglosassone rispetto alle liturgie ideologiche del vecchio continente.

Un altro aspetto affascinante e spesso trascurato di questi diritti è la loro natura di strumenti senza scopi definiti. Come l’orologiaio cieco di Richard Dawkins sono i motori immobili di fini che ignorano, quindi gli strumenti più adatti per intercettare le esigenze reali dei cittadini, senza “tirare a indovinare” come fanno altri strumenti di indirizzo dell’azione pubblica.

Il pragmatico agnosticismo di questi diritti è forse quanto di più lontano alla cultura del nostro paese, dove le regole sono quasi sempre dettate dai sogni di leader improvvisati ed ebbri del loro storytelling. Forse un giorno arriveremo a renderci conto che le regole migliori non sono quelle romantiche e ipnotiche dei sogni di “eroi, santi, poeti e navigatori” – sfortunato il paese che ha bisogno di eroi, diceva Brecht – ma quelle più noiose e cieche che aiutano ognuno a realizzare i propri.

 

NOTE

1) L’espressione originaria, citata anche da Richard Dawkins, è: “una volta che le molecole hanno imparato a competere fra di loro e a creare altre molecole a loro immagine, elefanti, e cose simili agli elefanti, si troveranno a tempo debito a vagare attraverso le savane”
2) Understanding the Plaintiff’s Attorney: The Implications of Economic Theory for Private Enforcement of Law through Class and Derivative Actions, John C. Coffee, Jr., Columbia Law Review Vol. 86, No. 4 (May, 1986), pp. 669-727. The U.S. Congress codified the private attorney general principle into law with the enactment of Civil Rights Attorney’s Fees Award Act of 1976, 42 U.S.C. § 1988. The Senate Report on this statute stated that The Senate Committee on the Judiciary wanted to level the playing field so that private citizens, who might have little or no money, could still serve as “private attorneys general” and afford to bring actions, even against state or local bodies, to enforce the civil rights laws. The Committee acknowledged that, “[i]f private citizens are to be able to assert their civil rights, and if those who violate the Nation’s fundamental laws are not to proceed with impunity, then citizens must have the opportunity to recover what it costs them to vindicate these rights in court.” Where a plaintiff wins his or her lawsuit and is considered the “prevailing party,” § 1988 acts to shift fees, including expert witness fees [at least in certain types of civil rights actions, under the Civil Rights Act of 1991, even if not in § 1983 actions], and to make those who acted as private attorneys general whole again, thus encouraging the enforcement of the civil rights laws. The Senate reported that it intended fee awards to be “adequate to attract competent counsel” to represent client with civil rights grievances. S. Rep. No. 94-1011, p. 6 (1976). The U.S. Supreme Court has interpreted the act to provide for the payment of a “reasonable attorney’s fee” based on the fair market value of the legal services.