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I miliardi che ci costano il caro spread e i dibattiti no euro
Fra le tante informazioni contenute nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria di Bankitalia, vale la pena spendere qualche minuto per approfondire gli annessi e i connessi del caro spread che ancora ci affligge. Il costo, vale a dire, misurato col differenziale fra Btp e Bund tedesco, che gli investitori ci chiedono per comprare i nostri titoli di stato e che inevitabilmente si trasmette a tutto il sistema Italia lungo la curva dei tassi di interesse. Un costo che è cresciuto notevolmente nell’ultimo anno. Ma prima di osservarne quantità ed esiti, vale la pena guardare alle cause.
Nella prima metà dell’anno il nostro paese ha vissuto uno stress macroeconomico secondo solo alle grandi crisi del 2008 e del 2011 per intensità.
A differenza di allora, la crisi del 2018 ha avuto ragioni squisitamente interne, generandosi per la fibrillazioni post-elettorale e per certe spavalderie politiche che ancora oggi presentano il conto. Lo stress vissuto dal comparto obbligazionario infatti, dove si collocano i nostri titoli di stato, è stato persino superiore a quello vissuto nel 2008 e solo poco sotto quello della grande crisi del 2011 del debito sovrano.
“In passato – scrive Bankitalia – livelli elevati di stress finanziario hanno preceduto un rallentamento dell’economia: un peggioramento dell’indice pari a una deviazione standard, circa 0,1 unità, si è associato a una minore crescita nei successivi dodici mesi intorno a 0,9 punti percentuali”.
Ma al di là dell’impatto che lo stress finanziario può avere sul livello della crescita, è il livello dello spread di per sé ancora rilevante a creare un primo problema più facilmente quantificabile: l’aumento del costo del debito.
Come si può osservare, seppure in calo rispetto al picco, il differenziale Btp-Bund rimane ancora molto elevato su tutte le scadenze, con un peggioramento drastico per quelle più brevi rispetto a quelle più lunghe. Il biennale, per esempio, dove lo spread era intorno ai 20-30 punti base, ora supera i 100, il quinquennale è praticamente raddoppiato, da 100 a 200, il decennale è cresciuto di un centinaio di punti base, quanto il trentennale. Questo livello di tassi all’emissione, se confermato nelle prossime – l’Italia ha in scadenza 141 miliardi di Btp fra maggio e dicembre e altri 205 miliardi nel 2020 – avrà un costo molto salato per le casse dello stato. “Se i rendimenti all’emissione dei titoli di Stato italiani dovessero restare coerenti con le attuali aspettative dei mercati,
nel biennio 2019-2020 si avrebbe una spesa complessiva per interessi sul debito pubblico di circa 4 miliardi superiore a quella che si sarebbe avuta con i tassi attesi dai mercati ad aprile dello scorso anno”, spiega la banca centrale.
Se guardiamo all’ultimo bollettino economico, sempre di Bankitalia, possiamo anche osservare quanto, sull’incremento dello spread, pesi quello che tecnicamente si chiama rischio di ridenominazione. In pratica il costo, espresso in termini di punti base, che gli investitori chiedono al Tesoro per coprire il rischio che il debito italiano cambi valuta di riferimento. Ossia che l’Italia esca dall’euro e cambi moneta.
Anche qui, questo costo è diminuito dal mese di maggio, quando si discorreva con grande tranquillità di piani B ed altre amenità, ma rimane ancora elevato e concorre in maniera non irrilevante sul costo del nostro debito. Forse questi dibattiti avrebbero suscitato meno applausi se i promotori ne avessero preannunciato il costo. Intanto però il costo dovremo sopportarlo tutti.
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