categoria: Distruzione creativa
I vantaggi dei beni digitali nel Pil, quanto può pesare la rivoluzione?
L’autore di questo post è Massimo Famularo, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl) –
Un gruppo di ricercatori del MIT ha proposto una metodologia per includere nel PIL i benefici derivanti dai beni digitali gratuitamente disponibili per i consumatori. Secondo la loro stima i guadagni di benessere potrebbero aggiungere alla crescita del prodotto, così rettificata, fino allo 0,11% all’anno.
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Nei circa 100 anni di vita della contabilità nazionale, il Prodotto Interno Lordo, ancora oggi indicatore di riferimento per valutare la “Ricchezza delle Nazioni”, è stato più volte criticato per la limitata capacità di cogliere gli aspetti non monetari del benessere collettivo. Sono famose a questo proposito le considerazioni fatte nel 1934 dall’economista Simon Kuznets, in un report per il Congresso degli Stati Uniti e il discorso del senatore Robert Kennedy che nel 1968, di fronte a una platea di studenti dichiarò che “Il Pil (…) misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.”
Più di recente, nuove critiche sono state sollevate in merito al valore che, in misura sempre maggiore otteniamo gratuitamente dai beni e servizi digitali, ma che non sono inclusi nel PIL. A questo proposito, un team di ricercatori del MIT, diretto da Erik Brynjolfsson ha proposto un nuovo indicatore, chiamato GDP-B, per tenere conto del contributo al benessere collettivo dei beni digitali che hanno prezzo uguale a zero.
Del tema si sono occupati anche Alberto Forchielli e Fabio Scacciavillani in questo video della serie Inglorious Bastards.
Si tratta di un tema complesso e ricco di spunti interessanti, soprattutto per quanto riguarda il contributo dell’economia digitale alla produttività, alla crescita economica e ai guadagni di benessere. Proviamo ad affrontare la questione partendo da un esempio.
Supponiamo che una corsa in taxi nella città di Milano, su un tragitto che faccio con una certa regolarità, mi costi in media 30€. Questo importo, viene conteggiato nel Pil in quanto servizio finale prodotto sul territorio nell’unità di tempo. Supponiamo poi che, grazie a una app di social riding, come ad esempio Bla Bla Car, io riesca a contattare delle persone che fanno lo stesso tragitto, nella stessa fascia oraria, hanno un posto libero in auto e sono disponibili a darmi un passaggio, in cambio di un rimborso spese, poniamo di 10€. Analogo discorso si può avere nel caso in cui, tramite un annuncio messo su un mio canale social, io venga a sapere che uno dei miei contatti è disposto a trasportarmi gratis lungo quella tratta.
In questi esempi il Pil si riduce di 30€ per ogni corsa che io non pago più al tassista (ammettendo che non trovi qualcun altro da trasportare nel tempo che avrebbe dedicato a me). Inoltre, peggiora la produttività totale dei fattori, indicatore generalmente utilizzato per misurare il grado di efficienza del sistema economico. A ben guardare, tuttavia, il mio benessere è aumentato, poiché è cresciuto il mio surplus del consumatore individuale (differenza tra quanto pago effettivamente un servizio e il prezzo massimo che sarei disposto a pagare). Inoltre, dal punto di vista ambientale, si registra un beneficio poiché 2 individui che prima facevano lo stesso percorso su 2 auto diverse, ora condividono lo stesso veicolo.
Dunque il PIL si perde un pezzo? Quanto grande? I ricercatori del MIT, attraverso una serie di sondaggi on line hanno stimato che negli Stati Uniti i consumatori pagherebbero da 40$ a 50$ al mese per Facebook, mentre in Europa le mappe digitali disponibili su smartphone vengono valutate dai consumatori circa 67$ al mese. Ci tocca rivedere il modo in cui misuriamo dimensioni e crescita dell’Economia? La risposta è più complicata di quanto possa sembrare.
Facebook e Google, ad esempio, ci possono offrire servizi gratuiti perché utilizzano i nostri dati personali per vendere servizi di pubblicità, consulenza e supporto commerciale alle imprese. Questi servizi, regolarmente fatturati sono contabilizzati nel PIL. Dunque, anche ammesso di voler introdurre dei correttivi nelle tecniche di contabilità nazionale, bisogna fare attenzione a non conteggiare due volte gli stessi elementi.
Lasciando agli esperti valutazioni più approfondite dei profili tecnici della questione, in questa sede credo sia utile proporre alcune brevi considerazioni.
Una parte sempre meno trascurabile del nostro sistema economico coinvolge il consumo di prodotti digitali, che possiamo ottenere gratuitamente o a costo relativamente basso, rispetto alle alternative tradizionalmente disponibili e spesso anche rispetto a quanto saremmo in teoria disposti a pagare. Si pensi al numero di messaggi scritti e di conversazioni (sia audio che video) che intratteniamo quotidianamente e dell’impatto che questo ha sulla nostra vita rispetto all’epoca, non tanto remota, in cui il traffico voce veniva tariffato a tempo e le lettere andavano stampate e affrancate.
Alcuni di questi prodotti digitali hanno di fatto sostituito alternative fisiche, come avvenuto ad esempio per i canali in streaming rispetto al noleggio di videocassette e dvd, o alle app degli smartphone rispetto ai navigatori satellitari, incrementando vertiginosamente le opzioni disponibili e migliorando sensibilmente il nostro benessere. Altri hanno carattere sostanzialmente nuovo, come i social network, che ci consentono una diffusione senza precedenti delle informazioni (al netto ovviamente del rumore e delle fake news) e una moltiplicazione delle opportunità di lavoro e affari.
Anche se vengono ceduti a costo zero o a fronte di un canone molto contenuto, questi prodotti sono realizzati da società private con finalità di lucro. Osservando le prime sei società al mondo per capitalizzazione di mercato nel 2018, secondo la classifica di Statista.com, si può osservare come la produzione di beni digitali svolga in tutte un ruolo determinante. Per quanto sia difficile e complesso quantificarlo in termini monetari, l’impatto di questo fenomeno sul nostro modo di vivere appare già dirompente e, con ogni probabilità, lo sarà in misura maggiore in futuro, con rilevanti implicazioni di carattere sociale ed economico.
Per comprendere quanto la rivoluzione digitale possa essere determinante nel successo o nel fallimento di aziende e, in prospettiva, nell’ascesa e nel declino di intere nazioni, possiamo guardare alla storia parallela di Netflix e Blockbuster. La prima società, partita nel 1997 come noleggio per corrispondenza di DVD, dal 2008 ha iniziato offrire contenuti in streaming e successivamente a produrli in via indipendente: essere riuscita a cavalcare la rivoluzione digitale l’ha portata a entrare nel club delle Big Tech americane noto come FAANG (Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google).
La seconda società dopo un successo durato oltre 25 anni, è fallita per l’incapacità di tenere il passo con l’evoluzione tecnologica. Icona di un’epoca, al punto che l’espressione blockbuster è ancora sinonimo nel lessico comune di film campione d’incassi ed è stata scelta di recente dagli autori del film Captain Marvel per trasmettere immediatamente negli spettatori la percezione di un’ambientazione anni ’90 epoca in cui negli Stati Uniti la catena era particolarmente diffusa.
Emblematico quindi il confronto tra due aziende operanti in settori simili e di come la scelta dell’atteggiamento nei confronti dell’innovazione digitale abbia fatto di una un’icona dinamica del presente e dell’altra un emblema nostalgico del passato.
Twitter @MassimoFamularo