Non basta chiamarlo “Decreto Crescita” per far ripartire il Pil

scritto da il 07 Aprile 2019

Leggendo le anticipazioni del cosiddetto Decreto Crescita, mi è venuto in mente un principio ben noto nel mondo del diritto. Si tratta dell’irrilevanza del nomen juris, ossia, in parole semplici: non importa la qualificazione giuridica che le parti danno a un atto (ad esempio un contratto), perché il giudice potrà disattendere quel “titolo” per accertare la realtà sostanziale del rapporto.

Parafrasando, non basta chiamare un provvedimento “Decreto Crescita” per dimostrare che al suo interno contenga misure per far crescere l’economia.

Dalle anticipazioni, sembra materializzarsi un mix di piccoli e disorganici provvedimenti. Alcuni utili, altri meno, ma potranno fare ben poco per risollevare le sorti dell’economia italiana.

Finalmente il Governo ha preso cognizione del fatto che solo con la crescita si possono finanziare misure di solidarietà sociale. Apprezzabile, senza retorica. Ma non si può fare a meno di notare l’assenza di un piano per la crescita. E lo si denota soprattutto dal fatto che vengano già sconfessate alcune scelte prese dalla maggioranza nella legge di bilancio, approvata pochi mesi fa. Torna ad esempio il super ammortamento, per il quale non era stata disposta la proroga. Già fallita la mini-IRES al 15%, un flop ampiamente previsto, adesso sostituito con uno sconto sull’imposta.

Il resto è un miscuglio di aggiustamenti di misure già in essere o rispolverate. In aggiunta, vi sono provvedimenti che riguardano temi di certo non legati alla crescita (come la norma sui commissari ILVA, la conversione del prestito Alitalia o il salva-Roma).

Pochi giorni fa ha causato un forte eco mediatico la presentazione dell’Economic Survey of Italy, a cura dell’OCSE. Le reazioni sono state abbastanza scomposte, a causa della mancata lettura del documento.

Tra i tanti grafici disponibili, ve ne è uno che colpisce in maniera disarmante.

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Ultimi nell’area OCSE in termini di crescita percentuale del Pil pro capite tra il 2000 e il 2018. Ovviamente, si tratta di un grafico che non ha nulla a che fare con l’operato dell’attuale Governo. Né bastano le responsabilità degli Esecutivi che si sono succeduti nel medesimo periodo per spiegarlo. Molti problemi, infatti, hanno radici più antiche.

Ma leggere tra le misure che dovrebbero far parte del Decreto Crescita la cosiddetta protezione dei marchi storici dalle delocalizzazioni, con annessi aiuti di stato, significa che si continua imperterriti ad ignorare i mali della nostra economia di mercato. I mali di un capitalismo privato di relazione, che a furia di cercare protezioni politiche ha finito per autodistruggersi.

Sembra invece del tutto sparito dall’agenda di Governo l’argomento produttività. Troppo tecnico per poter essere speso in campagna elettorale.

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Per non dimenticare i divari regionali, sui quali non sussiste alcuna idea economica. L’unico sussulto (sic) appare essere l’annuncio di un Consiglio dei Ministri da svolgere in Calabria…

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Tornano in mente le parole di Francesco Daveri, che racconta la politica degli anni ’70 in questi termini, sempre attuali:

«(…) Funzionava così: di fronte alla rivendicazione da parte di una categoria identificata come debole agli occhi dell’opinione pubblica (…) la politica di allora identifica una semplice ricetta: accontenta parzialmente, rinvia il problema e lo diluisce nel tempo (…)»[1].

Ancora, nel 2019, il nostro Paese -salvo pochi momenti di lucidità politica- non riesce ad avere una classe dirigente che sia in grado di comprendere di cosa ci sia bisogno per poter essere una grande potenza economica nell’epoca della globalizzazione, del mercato unico europeo, delle competenze, della progressiva automazione.

Come si può ad esempio pensare che si possa interrompere la fuga dei giovani all’estero attraverso qualche sconto fiscale, senza capire che si tratta di una mera velleità. Perché una nazione poco attraente in termini di opportunità, merito e apertura internazionale, non riuscirà ad invertire il trend.

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I grafici di cui sopra sono già di per sé eloquenti. Ma forse si possono trascrivere nelle parole di Franco Amatori: «(…) E’ mancato in Italia quel circolo virtuoso per cui la politica detta i grandi obiettivi del paese agli organi dello Stato e questo li trasmette alla società grazie a una burocrazia di alto livello, questa sì, elitaria, come in Inghilterra il sistema “Oxbridge”, come in Francia le grandi écoles. Se ciò non avviene, la politica pone in evidenza la sua parte “bassa”, il compromesso, la ricerca a tutti i costi del consenso. Non è la “politica assoluta”, vissuta disinteressatamente come missione (…)»[2].

Nulla è irrimediabile, ma occorre diametralmente cambiare rotta e velocità.

Twitter @frabruno88

[1] Daveri F., “L’ultimo atto: l’ingresso nell’euro”, in Amatori F. (a cura di), “L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico”, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli 2017, cit. p. 299  

[2] Amatori F., “Uno sguardo conclusivo. Cronache, ripensamenti, ricostruzioni”, in Amatori F. (a cura di), op. cit., p. 353