categoria: Draghi e gnomi
Europa: che fare? Ecco una risposta possibile a populismi e nazionalismi
I regimi totalitari nascono, si consolidano e, soprattutto, diventano riconoscibili, nel momento in cui i confini di uno stato si fanno netti e invalicabili, le etnie e il loro colore acquisiscono tratti distintivi, i simboli prevalgono sulla libertà d’azione, gli –ismi invadono il pensiero comune e connotano la quotidianità d’un popolo. I loro ideologi s’insinuano quasi sempre nelle pieghe delle crisi economiche, nel cui alveo si proclamano interpreti dell’afflizione e dell’insoddisfazione della gente, assumono miti e leggende per giustificare e legittimare una sorta di violenza redentrice e fanno proseliti mediante la cultura dell’esaltazione.
Chi osserva la formazione dei ‘totalitarismi’, quand’anche ne sia avversario, non ha quasi mai la visione integrale e concreta del fenomeno; ne percepisce, dapprima, solo la natura episodica, tanto da essere incerto, addirittura, se approvare o meno qualche gesto di forza che, per certi aspetti, potrebbe sembrare pure naturale. Ciò che ne deriva è un immediato sentimento di ambiguità che – lo si accetti o meno! – è da considerarsi o come una forma di complicità o come consenso tacito e amorfo.
Nell’VIII libro della Repubblica (563e), Platone mostra acume incontestabile e atemporale, nel descrivere il modo in cui l’affermazione smodata e maniacale di taluni miti politici porti gli uomini al disastro sociale: “(…) Questo mi sembra l’inizio bello e vigoroso da cui nasce la tirannide (…) Infatti, l’eccessiva libertà non sembra mutarsi in altro che nell’eccessiva schiavitù, tanto per il singolo quanto per la città”.
I più attenti tra i lettori non faranno fatica a ricordare il Mussolini anti-interventista o il Mussolini agitatore sociale o, ancora, il Mussolini condannato per renitenza alla leva. Lo stesso uomo s’è poi trasformato in interventista, militarista e, indubbiamente, antisociale. Allo stesso modo, se si indagasse tra i moventi filosofici di Adolf Hitler e si richiamassero alla memoria Hegel e Nietzsche, si sarebbe quasi tentati di non credere all’uso che n’è stato fatto. Sullo stesso piano, la rivoluzione d’ottobre è da considerarsi sicuramente come il riscatto sostanziale di quella Russia in cui i Romanov avevano ‘fatto’ più servi che cittadini; lo stalinismo, invece, propose, successivamente, una formula di consociazione tutt’altro che umanitaria. Insomma, alle origini della degenerazione, troviamo sempre cellule di populismo, vale a dire contenitori di ribellione indeterminata ed esigenze contraddittorie che il capopopolo di turno può utilizzare a proprio piacimento.
Il peggiore tra gli allarmi sociali è dato proprio dalla strana coesistenza di stridenti contraddizioni, specie se la comunità le accetta, senza protestare.
Il primo progetto d’una Europa unita fu concepito esattamente quale presa di coscienza della realtà nazionalistica, di cui fu manifesta e concreta soluzione, anche se, a ottant’anni di distanza, quando se ne parla, accade molto di rado di leggere testi che oltrepassino il mero resoconto cronologico e ne documentino la valenza umanitaria e storico-filosofica: il Manifesto di Ventotene non dovrebbe essere qualificato solo come prima tappa di un percorso ‘istituzionale’, ma dovrebbe essere riproposto quale modello d’un’opera permanente a difesa dell’identità collettiva europea, quasi fosse un archetipo del nostro agire sociale, un primato filogenetico del XX secolo. Chi ne dubitasse potrebbe sfogliare le pagine de Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, così da far pace con la propria coscienza. All’epoca della redazione del Manifesto, nel 1941, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, gli autori, erano confinati nell’isola tirrenica e, di conseguenza, subivano direttamente e intimamente quei processi di esclusione civile, umana e intellettuale voluti dai regimi. L’opera, non a caso, sulle prime, fu distribuita clandestinamente.
Bisogna smettere pertanto d’individuare nella nascita dell’Europa unita il successo della tecnocrazia e della plutocrazia bancaria, dimostrando scarsa comprensione dei fenomeni di terrore reale che fascismo, nazismo e stalinismo hanno prodotto nel secolo scorso, insanguinando le istituzioni, le case, le strade e i campi di lavoro.
È vero, questa Unione Europea dev’essere ‘ripensata’, giacché non può mostrare opposizione passiva o inerte ai fenomeni che la scuotono dall’interno, dalla Brexit ai fatti dei Gilet Gialli, senza trascurare le stesse critiche del governo giallo-verde, fondate o infondate che siano. Il Movimento Federalista Europeo, nato a Milano nel 1943 per volontà dello stesso Spinelli, è ancora oggi piuttosto risoluto nel proporre soluzioni strutturali diverse da quelle cui siamo comunemente abituati. Una tra le proposte che ci sembrano meritevoli d’attenzione, soprattutto per l’importante statuto macroeconomico è senza dubbio la seguente: la creazione di un bilancio aggiuntivo dell’Eurozona, fondato su risorse proprie non dipendente dai governi nazionali e controllato democraticamente dal Parlamento Europeo (dal sito del MFE).
Alla luce di questi presupposti e, in particolare, delle suggestioni politico-economiche, è quanto mai doveroso annunciare che, in questi giorni, proprio nel segno d’una memoria europea operativa e proattiva, un gruppo di dottori di ricerca, ricercatori, docenti e attivisti della Gioventù Federalista Europea (GFE) di Napoli ha dato alle stampe un libro intitolato Europa: che fare? L’Unione Europea tra crisi, populismi e prospettive di rilancio generale. Si tratta di una vera e propria opera collettanea, una silloge che riunisce i saggi di diversi autori a cura di Adriano Cozzolino, dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, Francesco Iury Forte, membro del Comitato Federale della GFE, e Flavia Palazzi, presidente della GFE di Napoli e docente di Filosofia Politica alla Facoltà di Economia (IAE) di Grenoble.
Nel tentare di presentare al lettore sia il libro sia il motivo per cui abbiamo scelto di parlarne, intendiamo prendere le mosse dalla postfazione, scritta da Fabio Masini, docente di Storia e teoria delle Relazioni Economiche Internazionali all’Università degli Studi Roma Tre: “L’idea che stava alla base dell’integrazione europea, quella dei Padri Fondatori che l’hanno concepita durante gli anni bui del secondo conflitto mondiale, ossia la necessità di spezzare il monopolio nazional-statale della sovranità per frammentarlo e ricomporlo su più livelli di governo, da quello locale a quello sovranazionale, è stata profondamente e clamorosamente tradita dalle derive sempre meno coraggiose e sempre più intergovernative degli ultimi anni. La crisi economico-finanziaria ha messo a nudo tutti i nodi irrisolti ed ancora aperti di una costruzione incompiuta, di un processo che sembra rimanere tale all’infinito, senza mai risolversi in un assetto stabile; un cantiere che non riesce nemmeno più a sperimentare, ma che assomiglia ogni giorno che passa ad un triste ricovero di macerie.”
Non siamo del tutto d’accordo sul concetto di “tradimento”: l’Europa non può basarsi su presupposti storico-economici di natura federale, come, per esempio, possono fare gli Stati Uniti d’America; di conseguenza, a nostro avviso, l’integrazione monetaria e l’indipendenza della Banca Centrale sono da stimarsi come successi. Tuttavia, Masini ha ragione da vendere, allorché parla di incompiutezza, introducendo e descrivendo, con bella e coinvolgente prosa, la metafora del cantiere. L’Europa, talora, appare vulnerabile proprio a causa di un’autentica carenza costituzionale. Non a caso, i padri di Ventotene si lasciarono ispirare dal pensiero di Alexander Hamilton!
Ecco emergere a tutto tondo il motivo per cui abbiamo scelto di parlare del libro, mettendo sullo sfondo ‘lo stato dell’Unione’ e in prima linea contrasti e timori: lentamente, si stanno reimponendo delle forme di incoscienza o inconsapevolezza della mitizzazione politico-economica, non altrimenti che se un’entità superiore fosse sul punto di ristorare afflitti e reietti. Come dar torto, dunque, ad Alessandro Arienzo, professore Associato di Storia delle Dottrine Politiche all’Università degli Studi Federico II, quando scrive che “l’attuale crisi politica dell’Unione mostra come l’accentuarsi dei momenti di management verticale della crisi economica abbia amplificato, alla lunga, quelle spinte centrifughe cui – in maniera paradossale – si risponde oggi con l’ulteriore ri-nazionalizzazione del processo politico”? Arienzo continua: “Queste tensioni indicano come solo nelle grandi visioni proposte dalle tradizioni federalista e internazionalista possano provenire quelle spinte a una maggiore democratizzazione della politica europea che resta l’unica risposta possibile alle sfide che il presente e il futuro prossimo venturo ci pongono.”
Ciò che appare assai importante e significativo in quest’opera dell’ingegno sta principalmente sia nella sua genesi sia nella sua modalità di scrittura: in quanto al primo elemento, per dovere di narrazione, va detto che la composizione e la pubblicazione sono state precedute da un ciclo d’incontri organizzato dalla Gioventù Federalista Europea di Napoli; per quanto attiene al secondo elemento, è altrettanto doveroso riferire che la pluralità e l’eterogeneità dei pareri contenuti nel libro sono tali da ritenere coraggiosi gli autori. Alcune posizioni, infatti, si avvicinano molto al limite del federalismo, rischiando quasi di sconfinare e tendere la mano all’avversario, per così dire.
Insomma, è un libro da prendere sul serio e i cui autori hanno un merito inequivocabile: non si limitano a denunciare populismo, nazionalismo, sovranismo et similia unicamente come variabili endogene del sistema Europa, ma li esaminano come posizioni dialettiche di cittadini europei che manifestano bisogni. Per dirla con Flavia Palazzi e Francesco Iury Forte: “Il mercato comune europeo potrà essere realizzato solo da una maggiore integrazione dei poteri in un governo federale e solo se sarà inquadrato in un sistema di giustizia e di sicurezza sociale”.
Si sappia che l’opera è dedicata ad Antonio Megalizzi e Bartek Orent-Niedzielski, giovani giornalisti uccisi nell’attentato di Strasburgo, qualche mese fa.
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