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Unione europea al bivio tra benessere e declino: 4 mosse per rilanciarla
L’autore di questo post è Gerardo Benuzzi, manager già in Pirelli, Cir, Italtel e oggi ceo di Uisa-Sapi –
È d’obbligo per tutti quelli che hanno a cuore l’Unione Europea e i suoi valori spingere perché essa evolva, si perfezioni e, attraverso un ruolo più forte, aumenti la capacità di creare benessere a tutti i suoi cittadini. Ne derivano due implicazioni importanti. In primo luogo, è necessario essere ancora più decisi e convincenti a far capire alla gente cosa significherebbe rinunciare all’Europa e cosa significherebbe un’Europa più debole, come desiderano i sovranisti. Senza entrare qui nella disamina e riassumendo in una frase, si può affermare che si avrebbe una situazione insostenibile di perdita di ricchezza, che tuttora non è percepita sufficientemente. In secondo luogo, è necessario stimolare l’Unione Europea e i paesi che la compongono ad affrontare subito il tema di una maggiore integrazione, non solo dal punto di vista del rafforzamento del senso di comunità (“sense of togetherness”), ma anche in campo economico e finanziario: in altre parole, spingendola a fare di più sul fronte della coesione e della crescita.
C’è bisogno oggi, con urgenza, di una Unione Europea più propensa ad aumentare il suo bilancio, in relazione a misure anticicliche a sostegno della crescita e a quelle che hanno come obiettivo la convergenza territoriale delle sue 274 regioni. Per evitare che l’Europa, già colpita da un evidente rallentamento congiunturale, scivoli in una recessione e in una crisi, con tensioni finanziarie insostenibili per i paesi con maggiore indebitamento, e di fronte alla quale il tentativo di salvare l’Euro e la stabilità finanziaria potrebbe non trovare più il sostegno necessario, è necessario farsi promotori di 4 misure chiave:
A) proporre l’introduzione del sussidio europeo di disoccupazione, misura anticiclica per definizione, con la finalità di omogeneizzare uno degli elementi più importanti di riduzione del disagio sociale, in un mercato del lavoro connotato, rispetto al passato, da mutamenti sempre più rapidi per l’accelerazione dell’evoluzione tecnologica.
B) proporre più risorse e nuovi capitoli di spesa, che vadano oltre il piano 2021- 2027, predisposto dalla Commissione Europea. Se si vuole maggiore integrazione in Europa, bisogna prendere atto che il piano 2021-2027 – reso sicuramente più complicato dall’accavallarsi di nuove emergenze politiche, quali l’immigrazione e l’uscita del Regno Unito – non riflette tale esigenza, pur presentando novità positive. Il bilancio 2021-27 è previsto oggi pari a 1.135 miliardi a prezzi 2018 (1.279 miliardi a prezzi correnti), restando fermo all’1,1% del Pil, mentre – comparazione significativa – la spesa pubblica degli stati membri è cinquanta volte superiore. Il bilancio destinato alle politiche di coesione in senso ampio (i fondi europei di sviluppo regionale, sociale, di coesione, finalizzati alla riduzione degli squilibri territoriali e delle aree di disagio) è previsto oggi pari a 330 miliardi, con un calo del 10% a prezzi costanti e parità di perimetro rispetto al periodo 2014-2020.
Per contrastare la tendenza alla rinazionalizzazione delle politiche economiche dei governi sovranisti, occorre invece ridare all’autorità sovranazionale europea il potere di aumentare la dimensione dei fondi gestiti e di allargare la propria capacità di spesa a nuovi capitoli, quali ad esempio una difesa comune (che porterebbe a indubbie efficienze di spesa pubblica) e l’assicurazione europea sui depositi bancari, per garantire la protezione dei risparmiatori nelle fasi di crisi e a supporto di una vera Unione bancaria, che oggi ancora non c’è.
C) proporre all’Unione Europea di attuare coerentemente la politica di coesione attraverso nuove regole. Nel nuovo piano la Commissione Europea ha preso atto che i problemi economici e sociali oggi colpiscono tutti, anche le aree sviluppate. Negli ultimi anni i contributi dei fondi di coesione sono stati prevalentemente indirizzati ai paesi dell’Est, attraverso un metodo di assegnazione basato essenzialmente sul reddito procapite (su base regionale). Gli effetti sono visibili, in termini di impatto sulla crescita: Pil Estonia + 30% tra 2011 e 2017; Pil Polonia +25%, solo per fare due esempi. Orbene, la Commissione propone, nel nuovo piano, un nuovo criterio per l’assegnazione dei fondi. Al reddito pro capite si aggiungono, con un peso globale del 19%, tre altri fattori : il mercato del lavoro (disoccupazione, livello di istruzione, ecc.) che vale un 15%, i flussi migratori (3%) e i cambiamenti climatici (1%). Questo cambiamento porta nel nuovo piano a una redistribuzione parziale di fondi dall’Est verso il Sud dell’Europa, come è logico, se si guarda al tasso di disoccupazione (per i paesi dell’Est compreso tra il 2% e il 7%; per Grecia, Italia e Spagna stabilmente a due cifre).
L’Italia, o meglio le aree in sofferenza del Sud Italia, beneficiano, nel piano delineato ad oggi, di un aumento del 7% delle risorse per la coesione, da 36,2 a 38,6 miliardi. Questa nuova consapevolezza della Commissione Europea è però limitata, nei suoi effetti pratici, dal fatto che l’applicazione dei nuovi criteri prevede un tetto massimo al cambiamento rispetto al periodo precedente: l’aumento dei fondi di un paese non può superare l’8%, mentre la riduzione non può superare il 24%. Vista la situazione economica e sociale attuale, va proposto, a beneficio non solo del nostro paese, di eliminare questi tetti o quanto meno di ampliarne la forbice, per far sì che la politica di coesione sia compiutamente aderente alle nuove regole.
Ancora in tema di regole, è opportuna una revisione del nesso stringente tra utilizzo dei fondi di coesione e la disciplina finanziaria di bilancio. Gli investimenti sostenuti da contributi europei devono essere cofinanziati con fondi statali in misura compresa tra il 20% e il 50%, e tali fondi sono conteggiati tra le uscite ai fini del calcolo del deficit pubblico, dovendo quindi essere compensati da riduzione di altre spese.
La disciplina finanziaria è importante, va però riconosciuto che questo meccanismo può neutralizzare gli effetti espansivi, che si desiderano ottenere con tali fondi. Per questo bisogna proporre, a beneficio di tutti, di escludere dal rapporto deficit di bilancio/Pil la quota di risorse nazionali che cofinanziano la politica di coesione. In altri termini, evitare che si penalizzi la spesa in conto capitale di uno stato, che vede negli investimenti il fattore di crescita più importante per il medio periodo.
D) proporre all’Unione Europea un Crash Program di stimolo alla crescita attraverso la creazione di un fondo aggiuntivo, destinato all’investimento in infrastrutture e con risorse di terzi. Per potere infondere uno shock positivo all’economia reale oggi in difficoltà, pensiamo che si debba proporre all’Unione Europea, in aggiunta al piano finanziario 2021-27, di avviare da subito un piano straordinario di investimenti in infrastrutture per un valore di 160 miliardi, attraverso un nuovo fondo che potremmo chiamare EFII (European Fund for Infrastructure Investment), con progetti da realizzare nei primi anni.
Le ragioni di un intervento straordinario sulle infrastrutture sono tre. La prima è la riduzione, negli ultimi anni, del peso degli investimenti in infrastrutture in Europa, sino a uno scarso 1,8% del Pil. La seconda è che il Fondo Europeo di Investimento Strategico (così come il futuro InvestEu), pur avendo avuto effetti positivi, non è in realtà un fondo di finanziamento diretto cash, ma una garanzia dell’Unione Europea, volta a stimolare investimenti pubblici e privati nella misura di un moltiplicatore pari a 15 volte il valore della garanzia stessa (che è stata di 21 miliardi). La terza è creare un’Europa sempre più connessa, con progetti per le reti del trasporto, delle telecomunicazioni e dell’energia, (ad esempio, i nove “core network corridors”).
Questo Crash Program avrebbe potenti effetti:
– sulla crescita economica, per gli effetti diretti e l’indotto espansivo che genererebbe
– sul ribaltamento delle aspettative negative oggi prevalenti
– sull’immissione di fiducia nel sistema, creando così un circolo virtuoso emulativo di ulteriore crescita.
Anche le forme di finanziamento di tale piano devono essere innovative. Proponiamo pertanto il ricorso a fonti prevalentemente esterne di finanziamento, e comunque senza ricorso a nuovi contributi degli stati. L’Unione Europea deve dimostrare di potere agire, uscendo dalla trappola degli egoismi nazionali, sui contributi da versare e puntare a una sua sempre maggiore autonomia finanziaria e minore dipendenza da tali contributi (che rappresentano oggi l’80% delle sue entrate).
Questo Crash Program può rappresentarne un test importante. Si dovrebbe infatti procedere al finanziamento su tre fronti, possibilmente: un aumento di capitale della Bei (Banca Europea d’Investimento); l’utilizzo di parte del capitale versato al European Stability Mechanism (oggi pari nel totale a 80 miliardi, posti a garanzia della stabilità finanziaria: ma l’obiettivo non è anche perseguire la stabilità finanziaria, il rilanciare l’economia reale, per prevenire la crisi ?); l’intervento di istituti bancari, con finanziamenti a medio-lungo termine. Non può essere definito ora il mix tra queste tre forma di finanziamento. Si nota peraltro che la componente di finanziamento bancario potrebbe da sola essere sufficiente, se si considera che 160 miliardi rappresentano poco più dell’1% del totale degli attivi delle undici principali banche europee (escluse quelle inglesi, che pure potrebbero partecipare). In tal caso, si tratterebbe di un finanziamento in pool, con un orizzonte ventennale, un ampio periodo di preammortamento, una corretta remunerazione, e ottenuto attraverso un patto tra istituzioni europee e istituti bancari, con indubbi effetti benefici anche per le banche.
A chi obiettasse che questo è un aumento del debito pubblico a livello sovranazionale andrebbero sottolineati due aspetti significativi. Il primo è legato al rimborso su un orizzonte molto lungo; il secondo è che per tale rimborso potranno essere utilizzate anche le risorse derivanti da forme di tassazione sovranazionali, come ad esempio la creazione di una Digital Tax Europea, che richiedono più tempo per essere preparate.
Quanto all’allocazione dell’Efii, è evidente che ne beneficerebbero soprattutto il nostro paese e tutti quei paesi che non riescono a ridurre le proprie sacche di disagio sociale e che hanno bisogno di un ammodernamento delle proprie infrastrutture.
Oggi, più che mai, la volontà politica deve comunque prevalere sui problemi tecnici realizzativi. Si è oggi davanti a un bivio cruciale, nella battaglia contro i nuovi nazionalismi: da un lato, una Unione Europea forte, in grado di gestire efficientemente un piano di sviluppo multiforme ed equilibrato, per diffondere un accresciuto benessere ai suoi cittadini; dall’altro un’Europa debole, dilaniata al suo interno da interessi nazionali egoistici e costretta al declino nel quadro geopolitico mondiale.
Twitter @GerardoBenuzzi