categoria: Vicolo corto
Che fine ha fatto il capitalismo italiano?
Dal 5 marzo è in edicola con Il Sole 24 Ore il volume “L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti”, scritto da Beniamino Andrea Piccone. Si tratta di un libro che vale la pena di leggere, perché ricostruisce i problemi del capitalismo italiano partendo da lontano, con lo sguardo attento dello storico dell’economia che combatte il “presentismo“. (disclaimer: conosco l’autore, ariete di Econopoly sin dagli albori)
Molto spesso, nel dibattito odierno, si tende a semplificare ragionamenti complessi con mere correlazioni. Si prendono a riferimento coincidenze temporali e si spacciano per nessi causali. L’introduzione dell’euro ad esempio, il “divorzio” Tesoro-Banca d’Italia, senza mai dimenticare l’unificazione del 1861. Piccone, invece, con pazienza, affronta i problemi strutturali della nostra economia. Dal rapporto con le banche e con la finanza ad esempio, senza mai tralasciare l’importanza delle persone che ne hanno segnato la storia, nel bene o nel male.
Il libro tratta diversi argomenti, ma quello che mi preme affrontare nel prosieguo (avendone scritto a volte su questi pixel, ad esempio qui), riguarda il declino della grande impresa capitalistica italiana. Leggendo il testo si capisce meglio perché nella classifica Fortune 500 troviamo ormai solo sei aziende italiane. La Francia ne conta ventotto, la Germania venti, la Spagna nove.
Perché è iniziato il declino? Perché la grande rincorsa italiana non pare essersi ben consolidata? Secondo Piccone, il percorso di sviluppo si è interrotto per diverse ragioni. Sicuramente hanno inciso la pressione globale e la crescita dei Paesi emergenti, danneggiando un’economia basata sui settori tradizionali e tagliata fuori dai settori più innovativi. Come scritto anche dallo storico economico Emanuele Felice[1] «Il Belpaese è infatti pressoché assente da tutti i principali settori innovativi degli ultimi decenni: la telematica (…), le biotecnologie (…), perfino le energie rinnovabili (…)».
Un’economia basata su piccole e medie imprese, contraddistinte da una promiscuità dei ruoli di proprietà e management. A ciò si aggiunge (i) un capitale umano che appare inadeguato alla complessità di un mondo globalizzato e (ii) un capitale sociale troppo spesso avulso al rispetto delle regole.
Ma se l’analisi può apparire impietosa, occorre fare alcune distinzioni. La media impresa italiana funziona, spesso è davvero un’eccellenza trainante. Il cosiddetto modello NEC (Nord-est e Centro Italia) ha ridato, soprattutto negli anni ’80, ossigeno al nostro sistema industriale. Come ha scritto Vera Zamagni[2], «La ragione per cui è cresciuto l’interesse per questo tipo di imprese è che esse hanno rivelato una migliore performance per tutto il periodo dal 1996 in poi, e in particolare nel corso della crisi, diventando la parte più dinamica sia dei distretti industriali sia dell’industria manifatturiera italiana tout court».
Le sorprendenti performance delle medie imprese non sono però sufficienti, se manca il supporto della grande impresa. E che fine ha fatto quest’ultima? Quali le cause del suo declino?
Secondo Amatori e Brioschi[3], ha contribuito al mancato sviluppo della grande impresa il «(…) tema dello “scarso spazio“ potenzialmente a disposizione delle grandi imprese private, strette fra l’abnorme estensione dell’industria statale e lo straordinario sviluppo delle piccole e medie imprese che meglio hanno saputo adattarsi alle difficili “condizioni di contorno”(…)».
Uno dei punti più interessanti del volume di Piccone riguarda il capitolo dedicato al ruolo giocato da Mediobanca ai tempi di Enrico Cuccia. Sebbene alcuni meriti dell’uomo siano stati innegabili, non si possono ignorare alcune critiche mosse a quella eccessiva tutela del sistema perpetrata dall’istituto, che -proteggendo le famiglie capitaliste- ha impedito o rallentato lo sviluppo di una nuova classe manageriale. Come ha scritto Valerio Castronovo in un recente volume[4], «Mediobanca s’era infatti impegnata, da un lato, a presidiare gli assetti proprietari e di controllo societari esistenti nell’ambito dell’establishment economico; e, dall’altro, a promuovere o a coordinare le relazioni fiduciarie e di sindacato più funzionali alle mutevoli logiche e convenienze del “salotto buono” del capitalismo italiano».
Il ragionamento di Piccone si estende poi spontaneamente alla dipendenza del capitalismo italiano dal settore pubblico. (pur evidenziando alcuni meriti di quest’ultimo nella prima fase dello sviluppo post-seconda guerra mondiale) Un capitalismo di relazione che, venuto meno il modello IRI disegnato da Beneduce e Menichella, è finito per naufragare.
Difatti, il più classico esempio dell’industrializzazione italiana (la FIAT), non è fallito completamente solo grazie all’azione disruptive di Sergio Marchionne, che decise di tagliare fortemente con tutto il sistema di relazioni politiche su cui si basava l’azienda, per attaccare frontalmente la globalizzazione. (a scapito dell’italianità, ma dovremmo aprire un altro capitolo)
Gli intrecci relazionali hanno impedito la formazione di una classe capitalista pronta ad affrontare le sfide del mercato unico europeo e della globalizzazione. Come scriveva Fabrizio Barca[5], tra le principali debolezze del capitalismo italiano rientrano il «Controllo politico degli enti pubblici con un ruolo centrale di mediazione dei partiti di governo; forti tensioni fra lavoro e capitale; cospicui interventi di sussidio compensativo da parte delle pubbliche finanze; rigidità degli assetti del sistema bancario e delle imprese, di nuovo con un attivo ruolo di mediazione da parte dei partiti».
Interessante anche la chiave di lettura, ancor più politica, di Vera Zamagni[6], «(…) la cultura italiana d’impresa è stata influenzata dalla lunghissima tradizione artigianale che mette insieme l’orgoglio del lavoro creativo e ben fatto con il desiderio di mantenere il luogo di lavoro amichevole e umano. Ma un contributo l’hanno certamente dato il PCI, che ha sempre ritenuto che le grandi imprese dovessero essere gestire dallo Stato sul modello sovietico, e la DC, che ha sempre favorito le aziende familiari. È stato così che gli imprenditori italiani si sono progressivamente disinteressati alla grande impresa, con poche eccezioni, e hanno coltivato eccellenti talenti per le PMI, producendo un dualismo imprenditoriale difficile oggi da superare».
L’emblema del fallimento di un’intera generazione di capitalisti è rappresentato dal caso della privatizzazione di Telecom. Piccone descrive la vicenda, dai “capitani coraggiosi” all’era di Tronchetti-Provera. E lo fa ricordando un insegnamento sempre da tenere a mente quando si parla di privatizzazioni: «Lo Stato mancò colpevolmente di regolare i mercati. Avvennero quindi mere dismissioni di proprietà, senza aver disegnato le regole del mercato di riferimento. In tal modo si passò da monopoli pubblici a monopoli privati, come nel caso del settore autostradale. Ma un’economia di scambio, senza istituzioni che determinano le regole del gioco, non funziona».[7]
Un tal esempio negativo di privatizzazione, induce molti ad auspicare un ritorno in auge dello Stato imprenditore. Piccone non crede a queste sirene ed ha il merito di ben perimetrare quello che dovrebbe essere il ruolo di uno Stato moderno, in grado di accompagnare le grandi trasformazioni economiche e sociali in atto: «Serve invece uno Stato agile, dinamico, che indirizzi correttamente le risorse verso il sistema educativo, instaurando politiche basate sul merito, differenziando gli stipendi e premiando i migliori. (…) La scuola deve diventare un centro di formazione focalizzato esclusivamente sui diritti degli studenti (e non sui diritti degli insegnanti), la vera forza di un futuro di un Paese»[8].
Il capitolo dell’istruzione è fondamentale, soprattutto nell’epoca dell’automazione. Ma occorrerà riflettere anche su altro. Ad esempio sul tema di come si finanziano le imprese, trattato ampiamente da Piccone. O sul diritto societario e sugli attuali modelli di corporate governance adottati in Italia, che non sembrano essere perfettamente confacenti alle dinamiche globali.
Se vogliamo far tornare a volare “il calabrone“, occorrerà immaginare il futuro, facendo tesoro del passato. Consapevoli che non esistono ricette comode e ad effetto immediato, nonostante siano a buon mercato ultimamente.
Twitter @frabruno88
[1] Felice E., “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia”, il Mulino, cap. VI
[2] Zamagni V. “L’Economia italiana nell’età della globalizzazione”, Il Mulino, cap. IV
[3] Amatori F., Brioschi F. “Le grandi imrese private: famiglie e colazioni”, in Storia del Capitalismo Italiano” a cura di Barca F., Donzelli, cap. II
[4] Castronovo V.,”L’anomalia italiana”, Marsilio, cap. V
[5] Barca F., “Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano”, in op. cit., cap I
[6] Zamagni V., op. cit., cap. IV
[7] Piccone B. A., “L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti”, Il Sole 24 Ore, cap.VI
[8] Piccone, B. A., opc. cit., cap. VII