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Cosa ci insegna l’esperimento finlandese sul reddito di cittadinanza
Il recente esperimento sul reddito di cittadinanza in Finlandia è uno dei casi più innovativi di sperimentazione di nuovi modelli di welfare, in cui un governo testa metodi non convenzionali. Quello finlandese è un vero reddito di cittadinanza (chiamato anche reddito di base), che a differenza di quello proposto dal Governo italiano non è condizionato all’accettazione di offerte di lavoro ed è indipendente dal reddito percepito: infatti il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle è in realtà un reddito minimo condizionato, non un sussidio di base. In questi giorni sono stati pubblicati i primi risultati dell’esperimento (ne avevamo già dato una visione d’insieme in un articolo precedente), che possono insegnarci qualcosa anche sulla situazione italiana.
I sistemi di welfare odierni sono pensati per un mondo diverso da quello in cui viviamo, un mondo caratterizzato da una maggioranza della forza lavoro impiegata a tempo pieno in settori industriali e in cui i rischi sociali erano legati prevalentemente agli avvenimenti che potevano compromettere la capacità lavorativa del capo famiglia. La flessibilizzazione del mercato del lavoro e l’aumentata complessità delle strutture familiari rendono il welfare più che mai uno strumento necessario per garantire stabilità durante le fasi di transizione. In molti paesi questo ha comportato un’eccessiva burocratizzazione, per poter tener conto di tutte le possibili condizioni individuali. Nella maggior parte dei sistemi di welfare la possibilità di ricevere sussidi dipende da variabili come lo status lavorativo, il reddito o la composizione familiare. Le regole per accedere al welfare sono tuttavia spesso così complicate da scoraggiare i potenziali beneficiari a farvi domanda, vanificando lo scopo per cui i sussidi sono stati pensati. In questa ottica si inserisce l’esperimento finlandese, utile a testare l’efficacia di nuovi strumenti di welfare incondizionati che eliminino le barriere burocratiche.
Come era strutturato l’esperimento? Sono stati estratti casualmente 2mila individui tra coloro che a fine 2016 si dichiaravano disoccupati (gruppo di trattamento), mentre altri 173mila sono stati considerati gruppo di controllo. Questi due gruppi sono stati seguiti per due anni (2017-2018). Coloro che sono stati inseriti nel gruppo di controllo hanno ricevuto l’assegno di disoccupazione finlandese classico, mentre quelli nel gruppo di trattamento hanno ricevuto un ammontare simile ma con una importante differenza: i soldi dati dallo stato non diminuiscono nel caso si trovi un impiego, né esistono condizionamenti legati al rifiuto di offerte di lavoro. Si tratta di un reddito di base incondizionato, ovvero che non dipende da situazioni specifiche dell’individuo e dunque è facile da assegnare da un punto di vista burocratico.
I risultati dell’esperimento
Tra ottobre e dicembre 2018 è stata condotta un’indagine sulla ricerca di lavoro, il benessere e lo stato di salute percepiti su un campione di partecipanti all’esperimento (qui si può trovare un riassunto dei risultati). I grafici proposti sono tratti dallo studio condotto da Kela, corrispondente finlandese dell’Inps, che sta seguendo l’esperimento.
Figura 1: – lavoro
Fonte: Risultati preliminari Kela
Contrariamente alle aspettative, non ci sono state differenze rilevanti tra i due gruppi di partecipanti sia in termini di giorni lavorati, che di guadagni da attività lavorativa in proprio. Questo suggerisce che coloro che hanno ricevuto il sussidio hanno comunque “lasciato il divano” per cercare lavoro, anche se non erano obbligati a farlo. Va comunque considerato che il sussidio è inferiore rispetto alla soglia di povertà in Finlandia (circa 1000-1200 euro al mese considerando 50-60% del reddito mediano netto, secondo Eurostat) e quindi anche se rappresenta un sostegno economico, non è sufficiente da solo e nel lungo periodo per sopravvivere. Inoltre, il reddito di base sembra avere un vantaggio importante rispetto ai sussidi condizionati alla ricerca di un lavoro: ridurre lo stress di chi lo riceve e aumentare la capacità di concentrazione, come sembra mostrare la figura 2.
Figura 2: benessere
Fonte: risultati preliminari Kela
Il livello di salute e benessere percepiti da coloro che hanno ricevuto il reddito di base si attesta si un livello più elevato rispetto a chi ha continuato a sottostare al sistema di sussidi vigente. Queste situazioni di malessere psicologico possono sfociare in difficoltà nel trovare un’occupazione stabile e ben pagata. Il reddito di base sembra riuscire meglio dei sussidi condizionati al reddito nel ridurre lo stress e migliorare la fiducia nelle proprie capacità e nel futuro. Questo potrebbe aiutare le persone a trovare lo spazio mentale necessario per uscire dalla propria condizione di disagio, compensando il disincentivo al lavoro che tipicamente viene attribuito a questo tipo di trasferimenti monetari. Il benessere dei cittadini è una variabile importante e che sempre più i gli istituti statistici sono in grado di misurare (in Italia con i Bes).
Non è tutto oro quel che luccica
L’esperimento finlandese non è però senza criticità. Il reddito di base offerto è inferiore all’assegno di disoccupazione che spetterebbe a percettori con bambini, che possono fare domanda per ottenere l’integrazione. Quindi una parte dei beneficiari si trova comunque a fare domanda per ottenere prestazioni ulteriori, non beneficiando di fatto della riduzione della burocrazia che dovrebbe accompagnare il reddito di base.
Altre criticità riguardano la validità dell’esperimento: in primis, solo il 23% di coloro che sono stati selezionati per essere intervistati ha risposto ai ricercatori. Inoltre, è possibile che coloro che non hanno beneficiato del trattamento abbiano dichiarato livelli più bassi di soddisfazione perché provano ”invidia” verso coloro che hanno ricevuto il reddito di base. Infine, il fatto che i soggetti sappiano di essere parte di un esperimento potrebbe distorcere le risposte degli intervistati, compromettendone la validità.
L’attuale ministro delle finanze finlandese ha dichiarato che l’esperimento non avrà seguito, a causa del mancato aumento dell’offerta di lavoro da parte di coloro che hanno ricevuto il reddito di base. Per avere una valutazione completa dell’esperimento bisognerà attendere la pubblicazione dei dati definitivi che avverrà entro il 2020.
Le lezioni per l’Italia
I risultati finlandesi forniscono lo spunto per una riflessione sull’Italia. Anche nel nostro paese il mercato del lavoro è cambiato e la necessità di adattare il sistema di welfare ai nuovi rischi sociali è più che mai reale. Anche se il tasso di occupazione è lievemente aumentato (dal 57,6% del 2004 al 58,9% del 2018), l’insicurezza sul mercato del lavoro è in crescita, come mostrato dall’aumento della percentuale di contratti a tempo determinato dal 1993 al 2017. Inoltre l’incidenza del part-time involontario è in crescita dal 2008 e il numero di ore lavorate è inferiore del 5,1% rispetto al livello pre-crisi (fonte: rapporto Inps-Istat-Inail-Ministero del Lavoro febbraio 2019). Sono sorti nuovi bisogni di stabilità che evidentemente i vecchi strumenti di welfare non riescono a percepire e garantire.
Figura 4: percentuale di contratti a tempo determinato sul totale in Italia
Fonte: Istat
Il reddito d’inclusione prima e il reddito di cittadinanza poi (anche se il nome di questo ultimo rimane tecnicamente errato), sebbene molto diversi dal reddito di base proposto in Finlandia, rappresentano un primo passo che si attendeva da decenni in Italia. Molto si è detto sulle conseguenze dei sussidi alla povertà sull’offerta di lavoro, sottovalutando il fatto che le persone a basso reddito o i disoccupati spesso partono da situazioni di svantaggio sotto molti punti di vista, non ultimo quello della salute, sia mentale che fisica. È importante quindi estendere la discussione anche in questa direzione.
Sebbene sia intuitivo che ci sia benessere maggiore fra gli occupati rispetto ai disoccupati, è interessante capire rispetto a quali dimensioni. Per esempio, sarebbe particolarmente preoccupante se ci fosse una differenza sostanziale fra lo stato di salute di occupati e disoccupati.
Figura 5: salute per status occupazionale, 2017
Fonte: Istat
Osservando la figura 5 appare però una differenza palese. Chi è in cerca della prima occupazione è generalmente giovane, non sorprende quindi che questa categoria abbia la percentuale più bassa di persone con almeno una malattia cronica e quella più alta di persone in buona salute. Confrontando però occupati e disoccupati, vediamo che la seconda categoria mostra percentuali più alte per le malattie croniche e più basse per la buona salute, sebbene la composizione anagrafica dei disoccupati – anche al netto di chi è alla ricerca della prima occupazione – dovrebbe portarci nella direzione opposta (i disoccupati dovrebbero essere in media più giovani degli occupati). Questo andamento costituisce un campanello d’allarme anche in assenza di un rapporto di causalità fra lo status occupazionale e la salute.
Risultati che trovano conferma anche soffermandosi sulla salute mentale: nel 2015, fra i disoccupati di 35-64 anni, la percentuale di coloro che riportano disturbi di depressione o ansia cronica grave raggiunge l’8,9% (che sale a 10,8% fra gli inattivi), mentre la cifra si ferma al 3,5% fra i coetanei occupati. La frustrazione dovuta alla ricerca – senza successo – di un lavoro, unita all’instabilità e all’incertezza, potrebbero infatti avere un effetto negativo sulla salute mentale degli individui interessati, generando un circolo vizioso tra disoccupazione e cattivo stato di salute.
Conclusione
Questi dati ci portano a riflettere sulla multidimensionalità dei concetti di povertà e disoccupazione e sull’interrelazione tra benessere individuale e status lavorativo. Il reddito di base rimane molto difficile da applicare in Italia, e con anche con diverse zone d’ombra (il possibile disincentivo al lavoro, l’elevato costo, l’inefficienza a contrastare la povertà), ma il benessere degli individui nell’attuazione delle policy sta iniziando a essere studiato non solo da un punto di vista economico ma anche sociale (lo sviluppo degli indicatori Bes è un esempio positivo) e auspichiamo che sia incluso tra gli obiettivi di un numero crescente di politiche pubbliche.
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