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L’agricoltura biologica esiste e rende più di quella tradizionale
L’autore di questo post è Roberto Pinton, segretario di AssoBio, Associazione nazionale delle imprese di trasformazione e distribuzione dei prodotti biologici –
In relazione al post apparso su Econopoly dal titolo “Italiani sempre a dieta, salutisti a parole. Ma non sanno cos’è il biologico”, quale associazione che tutela l’agricoltura biologica e biodinamica, ci preme precisare alcuni punti per meglio spiegare cos’è veramente il biologico.
È nell’ormai lontano 24 giugno 1991 che veniva pubblicato sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee il regolamento CEE n. 2092 che introduceva la disciplina della produzione agricola e agro-alimentare con metodo biologico.
Da allora non c’è proprio nulla di “cosiddetto”, ma una precisa definizione di legge, valida in tutti i Paesi UE e in quelli del SEE (Spazio economico europeo), ecco perché la frase “Si può dire che non esiste agricoltura che non sia biologica” riportata nell’articolo costituisce una boutade buona a épater la bourgeoisie.
Per noi che operiamo in ambito regolamentato, certificato e accreditato, sono i regolamenti europei (e le conseguenti norme nazionali) a definire ogni minuta caratteristica della produzione biologica, tra l’altro qualificandola come “sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, su un alto livello di biodiversità, sulla salvaguardia delle risorse naturali, sull’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali”.
Lo stesso quadro normativo riserva espressamente il termine biologico (“nonché i rispettivi derivati e abbreviazioni”) al solo metodo agricolo codificato, alle aziende che lo adottano e ai prodotti che ottengono.
È quindi imprecisa e dogmatica l’affermazione che “non esiste agricoltura che non sia biologica”.
Al di là del sorriso che strappa il disordinato ragionamento in cui vengono citati nonni, prima guerra mondiale, morti per tetano o per influenza, fintanto che rimarrà in vigore un robusto quadro normativo che definisce chiaramente la produzione agricola e agro-alimentare biologiche, il fatto che vengano ritenute biologiche, naturali e sostenibili indistintamente tutte le forme di agricoltura è poi, francamente, del tutto irrilevante.
Ogni anno l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), che insieme alle 21 Agenzie Regionali (ARPA) e Provinciali (APPA) per la protezione dell’ambiente fa parte del Sistema Nazionale a rete per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), pubblica il “Rapporto nazionale pesticidi nelle acque”.
L’ultima edizione indica che “Il monitoraggio evidenzia una presenza diffusa di pesticidi nelle acque, con un aumento delle sostanze trovate e delle aree interessate. Nel 2016, in particolare, ci sono pesticidi nel 67,0% dei punti delle acque superficiali e nel 33,5% di quelle sotterranee. Sempre più evidente è la presenza di miscele, con un numero medio di circa 5 sostanze e un massimo di 55 sostanze in un singolo campione”.
Vi si legge che “in alcune Regioni la presenza dei pesticidi è molto più diffusa del dato nazionale, arrivando a interessare oltre il 90% dei punti delle acque superficiali in Friuli Venezia Giulia, provincia di Bolzano, Piemonte e Veneto, e più dell’80% dei punti in Emilia Romagna e Toscana. Supera il 70% in Lombardia e provincia di Trento. Nelle acque sotterrane la presenza di pesticidi è particolarmente elevata in Friuli 81%, in Piemonte 66% e in Sicilia 60%”.
Nell’ultima campagna di rilevazione sono state trovate 259 sostanze; gli erbicidi sono, come tradizione, le sostanze più rinvenute, anche se “Rispetto al passato è aumentata notevolmente la presenza di fungicidi e insetticidi”, frase che, purtroppo, è un tragico “taglia e incolla” che troviamo in ogni edizione del Rapporto.
“Nelle acque superficiali, 371 punti di monitoraggio (23,9% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti ambientali” informa il Rapporto. Per quanto riguarda le acque sotterranee, “260 punti (il 8,3% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti. Le sostanze più rinvenute sopra il limite sono: gli erbicidi atrazina desetil desisopropil, glifosate e AMPA, bentazone e 2,6-diclorobenzammide, l’insetticida imidacloprid, i fungicidi triadimenol, oxadixil e metalaxil”.
“Per alcune sostanze la frequenza di ritrovamento, la diffusione e il superamento dei limiti, pongono un problema, in alcuni casi di dimensione nazionale” ammonisce il documento, che rileva anche: “La presenza di miscele di sostanze nelle acque è uno degli aspetti più critici evidenziato dal monitoraggio. Rispetto al passato è aumentato il numero medio di sostanze nei campioni, e sono state trovate fino a un massimo di 55 sostanze diverse contemporaneamente. La tossicità di una miscela è sempre più alta di quella dei singoli componenti. La valutazione di rischio deve, pertanto, tenere conto che l’uomo e gli altri organismi sono spesso soggetti all’esposizione simultanea a diverse sostanze, mentre lo schema di valutazione usato nell’autorizzazione dei pesticidi, basato sulle singole sostanze, non è sufficientemente cautelativo”.
Lo studio fa anche presente che “La presenza di pesticidi nell’ambiente, oltre a rappresentare un rischio per gli ecosistemi, pone problemi anche per l’uomo. L’uomo può assimilare sostanze chimiche pericolose attraverso gli alimenti e l’acqua, ma anche attraverso le vie respiratorie e la pelle. L’esposizione per via orale dipende dalla presenza di residui della sostanza nel cibo e nell’acqua potabile e dalle quantità di cibo e acqua consumata”.
E dal canto suo la pubblicazione “Il contributo dell’agricoltura biologica allo sviluppo sostenibile delle aree rurali” (dicembre 2018) analizzando i dati economici della Rete di informazione contabile agricola (RICA, lo strumento comunitario finalizzato a conoscere la situazione economica dell’agricoltura) conferma la maggiore redditività delle aziende agricole biologiche italiane rispetto a quelle convenzionali. Ma suggerisce anche che la redditività dell’agricoltura biologica aumenterebbe se venissero monetizzate le esternalità positive (ossia il valore dei servizi eco-sistemici forniti) e quelle negative (come i costi ambientali) di entrambi i sistemi produttivi.
È la scienza a dire che le forme d’agricoltura sono ben diverse, e duole che vengano trascurate queste evidenze.