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La tensione tra Cina e USA è il fil rouge che lega lady Huawei al Venezuela
L’autore di questo post è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico –
Cosa unisce l’improvviso epilogo del fatiscente regime di Nicolas Maduro in Venezuela con l’arresto in Canada della rampolla di Ren Zhengfei, fondatore e deus ex machina del colosso cinese Huawei? La sfida per l’egemonia globale.
Durante la prima metà dell’800 queste trame contorte e sotterranee presero il nome di Great Game (Grande Gioco). Allora si svolgevano in Asia Centrale e contrapponevano gli imperi coloniali, oggi attraversano tutto il mondo e contrappongono gli USA, percepiti erroneamente come una potenza declinante, e la Cina, percepita giustamente come una potenza emergente.
Per comprendere il corso degli eventi, però, è necessario cominciare dall’inizio.
Nel 2015 Pechino vara un ambizioso programma di sviluppo tecnologico ed industriale: Made in China 2025. Il piano mira a trasformare la Repubblica Popolare da factory system globale a economia complessa e focalizza l’attenzione sullo sviluppo dei comparti industriali high tech e/o ad alto valore aggiunto.
Il target individuato dalle autorità cinesi è mastodontico: entro il 2025 almeno il 70% della catena del valore di ciascun assemblato o venduto in Cina dovrà essere cinese. Che cosa vuol dire?
Fino a una trentina di anni fa la gran parte dei beni scambiati sui mercati internazionali erano ideati, progettati e prodotti all’interno del Paese che li esportava, remunerando capitali e forza lavoro locali. A partire dagli anni ’80, però, le filiere industriali hanno subito un graduale processo di spacchettamento. Oggi la produzione e la distribuzione di un singolo prodotto possono arrivare a coinvolgere decine di economie diverse, ripartendo remunerazione da capitale e remunerazione da lavoro a seconda delle specializzazioni produttive di ciascun Paese.
Chi ha le migliori università, disponibilità di venture capital, istituzioni stabili e un modello di sviluppo all’avanguardia ospita gli headquarters e i centri di ricerca, i principali hub di distribuzione e i servizi avanzati, quindi posti di lavoro a medio/alto reddito e a medio/alto valore aggiunto; chi dispone di manodopera semi-qualificata a basso costo, offre condizioni fiscali favorevoli e legislazioni compiacenti si prende le fabbriche, quindi posti di lavoro a basso reddito e a basso valore aggiunto. E si carica dei costi sociali e ambientali correlati ai cicli ad alta intensità ambientale, energetica o di lavoro.
I modelli statistici, e in particolare quelli adottati dalle contabilità nazionali per conteggiare la bilancia dei pagamenti, però, sono rimasti tarati sul precedente paradigma commerciale.
Perciò, il Paese che fa l’ultimo passaggio, e cioè l’assemblaggio delle componenti, registra nella bilancia commerciale un surplus pari al valore complessivo del bene esportato. I Paesi che collaborano alla produzione, invece, registrano un surplus nel conto capitale, come se il valore delle componenti fosse il rendimento di un investimento nel Paese che assembla ed esporta il prodotto finito.
Ricardo Hausmann e Federico Sturzenegger hanno provato a inquadrare la questione definendo quel rendimento da capitale come “materia oscura”, il ritorno del know how e del technology transfer che avviene dalle economie avanzate al Paese che compie l’assemblaggio. Tuttavia, la distorsione concettuale è evidente.
Prendiamo un caso di studio classico: l’iPhone. Ogni volta che la Cina esporta un iPhone segna +210 dollari nella sua bilancia commerciale (iPhone 7). Tuttavia, di questi costi di produzione quelli che remunerano capitali o manodopera cinese sono solo il 3-5%. A farla da padroni sono il Giappone, la Germania e Taiwan, che contribuiscono alla produzione con componenti di precisione e/o ad alta tecnologia (microprocessore, fotocamera etc). Non solo. Apple trattiene come profitto tra il 50 e il 60% del prezzo finale (650 dollari), quindi più di 300 dollari a pezzo, e cioè il 150% dei costi di produzione
La Asian Development Bank stima che se nella bilancia commerciale USA fosse incorporata la quota di valore generata negli USA dei soli prodotti Apple, il deficit commerciale statunitense scenderebbe di circa il 7%.
Questo vuol dire che se il ricalcolo fosse esteso a tutti i beni che coinvolgono gli USA nella loro filiera, la bilancia commerciale statunitense registrerebbe un corposo surplus e non un pesante deficit. E’ possibile affermare, quindi, che la Cina, come tutte le altre economie emergenti, sinora ha trattenuto le briciole della ricchezza che ha contribuito a generare. Il programma Made in China 2025, però, ha cambiato improvvisamente le carte in tavola.
Trattenere il 70% del valore aggiunto di ogni prodotto vuol dire, per rimanere all’esempio precedente, che entro il 2025 la Cina punta ad aggiungere alla scocca e all’assemblaggio dell’iPhone anche componenti ad alta tecnologia e/o funzioni di business complesse: fotocamera, microprocessore, schermo, oppure ricerca & sviluppo, distribuzione, customer care.
Il passo è notevole, per anni gli analisti hanno discusso se la Repubblica Popolare avesse le capacità imprenditoriali (capacità innovativa, creatività, senso estetico) e tecnologiche per compiere un simile salto industriale. Huawei è stato il laboratorio in cui la Cina ha sviluppato – senza risparmiare risorse e concessioni – il nuovo modello industriale. Con successo, come dimostra il primato nella tecnologia 5G.
Ma perché Apple, società quotata e perfettamente inserita nell’ecosistema imprenditoriale USA, dovrebbe cedere al ricatto cinese? Perché dovrebbe scegliere di appaltare la produzione di componenti strategiche alle aziende indicate da Pechino o cedere, addirittura, ad accordi di partnership o franchising svantaggiosi?
Semplice: perché la società di Cupertino vende già oggi più iPhone in Cina che in Europa e, a seconda degli anni, il mercato cinese supera anche quello domestico (UBS, Gartner). E senza la guerra commerciale di Trump, o meglio senza l’escalation della strategia di contenimento USA, il divario era destinato ad aumentare notevolmente entro il 2025.
Il modello è stato rodato su decine di economie in via sviluppo, in particolare in Africa, e ha preso il nome di Beijing Consensus. La Cina sfrutta da oramai 20 anni la sua capacità di penetrazione economica e finanziaria per avvinghiare i suoi partner commerciali in un abbraccio soffocante, che li priva, progressivamente, dell’indipendenza politica e strategica. Non va dimenticato che, attualmente, la Cina produce un quarto delle merci mondiali e, da sola, è un mercato potenziale che cresce a tassi superiori al 6% l’anno di quasi 1.4 miliardi di persone. Tre volte la popolazione dell’Unione Europea e quattro volte la popolazione americana.
A parte gli USA, nessuno al mondo tratta alla pari con la Cina. E, oramai, nessuno si può permettere di non trattarci.
Colossi come Google o Facebook si sono già dovuti piegare negli anni scorsi alle imposizioni cinesi. È facile immaginare la capacità di persuasione che le autorità della Repubblica Cinese sono in grado di esercitare su realtà più piccole, meno strutturate. Su questo bisogna essere chiari: “l’estro” di Trump c’entra poco o nulla con l’escalation dei rapporti tra gli USA e la Repubblica Popolare. Anzi, per quanto sia difficile cogliere nella sua complessità l’eterogenesi dei fini che ha portato il tycoon alla Presidenza, con tutta probabilità l’elezione ne è stata un effetto.
Al contrario, proprio in questo ganglio strategico è possibile riscontrare una delle radici profonde dell’affermazione del pensiero sovranista negli USA.
Da più di un decennio oramai il Pentagono e gli alleati orientali mettono in guardia la Casa Bianca dalle ambizioni di Pechino e sollecitano una reazione strutturale nei confronti dell’assertivismo cinese. La reazione dell’Amministrazione Obama è stata incerta e, in fin dei conti, inadeguata.
Nel 2011, dopo molte resistenze da parte del Presidente, il Segretario di Stato Hillary Clinton riuscì a strappare un piano di contenimento dell’influenza cinese che prese il nome di Pivot to Asia. Un disegno, però, che si limitava al piano politico-militare, senza prevedere contromisure sul fronte economico e commerciale, lasciando perciò intatta la testa d’ariete della Repubblica Popolare.
La frustrazione del complesso militare-industriale nei confronti della “questione cinese” ha cementato il consenso di élites visceralmente avverse alla retorica dei “fatti alternativi” e all’imprevedibilità trumpiana nei confronti del candidato dell’Alt-Right, consentendone la sorprendente vittoria.
L’effetto è stato immediato: le strategie dei due Paesi si sono ribaltate. Gli USA sono diventati muscolari, assertivi, hanno iniziato a incalzare l’avversario cinese in tutti i tavoli. Pechino, improvvisamente, ha iniziato a incassare optando per un basso profilo e cercando di rinsaldare i rapporti con i partner europei nel nome del libero commercio e della lotta al cambiamento climatico.
Eventi come l’arresto di Meng Wanzhou in Canada o il regime change in Venezuela sono solo tasselli di questo complesso e oscuro gioco che contrappone le due grandi potenze dei nostri tempi.
Il messaggio nei confronti di Huawei è chiaro: se il colosso di Shenzen vuole diventare l’alfiere di un modello alternativo a quello occidentale si può scordare i benefici della libera circolazione di persone, merci e capitali.
Anche il regime change a Caracas è un monito esplicito. Pechino da più di vent’anni si stava coltivando in Venezuela una testa di ponte per l’America del Sud. La questione era nota e ampiamente sviscerata, anche perché sembrava contraddire – per la prima volta in quasi due secoli – la Dottrina Monroe. In tanti vi avevano visto il segnale dell’inevitabile declino statunitense e dell’inarrestabile ascesa cinese.
La Cina oramai controlla l’industria petrolifera venezuelana, le istituzioni finanziarie, garantisce la solvibilità dello Stato e le forniture commerciali. Un cappio, che, con il progressivo collasso del regime, si è fatto sempre più stretto.
In molti esponenti della repubblica bolivariana si era fatta strada l’idea che Maduro, preparandosi all’uscita di scena e a un esilio dorato, stesse per svendere il Paese. E che gli unici disposti a comprare fossero i cinesi, attratti dalla posizione strategica e dalle sterminate riserve petrolifere della Orinoco Belt.
Dagli USA – ex post è difficile credere senza una regia – gli esuli hanno fatto propri e rilanciato questi timori.
Non è certamente un caso che gli USA siano stati il primo Paese a riconoscere il nuovo esecutivo. E che a seguire, lo abbiano riconosciuto tutti i più fedeli alleati di Washington. Al di là della propaganda, della preparazione a questo explicit teatrale, è evidente che i timori avevano certamente una qualche fondatezza. Il land grabbing in Africa, o l’affitto per 99 anni di porti strategici in giro per il mondo, dimostrano che Pechino non si fa scrupoli ad attuare politiche neocoloniali nei Paesi in via di sviluppo.
Con questo evento la strategia di contenimento USA nei confronti della Cina, però, prende una china pericolosa, cupa. La Storia sembra ritornare improvvisamente agli anni ’80.
Addossare a questa Amministrazione tutte le responsabilità di questo processo storico – che durerà anni a dispetto di eventuali cambi al vertice delle due potenze o dei loro alleati – però, è ingiusto.
Come ha acutamente sintetizzato Romano Prodi in una recente intervista al Sole 24 Ore, dopo decenni in cui l’economia ha prevalso sulla politica, oggi la politica torna a prevalere sull’economia.
E la ragione è, con tutta probabilità, proprio l’ascesa cinese.
Le multinazionali sono scese a patti con il regime comunista e saranno disposte a farlo ancora in futuro. Non è compito loro difendere le fondamenta culturali e politiche della civiltà occidentale.
Ma gli Stati democratici fino a quanto potranno scendere a patti con un regime autoritario, suprematista, imperialista, che non riconosce i diritti umani e reputa le democrazie sistemi fragili da controllare?
Questo è un interrogativo che, oramai, atterrisce in molti ma di cui pochi parlano. Chi per interesse, chi per pudore. Si parla, infatti, di un tavolo su cui girano montagne di soldi e di uno scenario le cui conseguenze potrebbero essere apocalittiche. E anche su questo punto bisogna essere molto chiari: l’Amministrazione Obama ha coltivato un’illusione che, per quanto ecumenica, è la stessa illusione coltivata dalle democrazie a cavallo tra le due guerre mondiali.
Il benessere, la ricchezza, lo sviluppo economico non rendono un regime autoritario più mansueto, ma gli forniscono semplicemente gli strumenti per attuare più rapidamente e più integralmente il suo disegno. Questo, purtroppo, non è un postulato ideologico ma una delle fondamenta fattuali su cui si è costruito il primato democratico in Occidente. Su cui si è costituita l’Organizzazione delle Nazioni Unite, all’indomani del conflitto più sanguinoso della Storia dell’umanità. Scaturito, per l’appunto, dalle ambizioni egemoniche di tre regimi autoritari.
Il progressismo ha voluto chiudere gli occhi su questa enorme contraddizione della contemporaneità, appiattendosi su una prospettiva economicista. Mentre veniva sbandierata un’avversità dura e pura nei confronti del pensiero economico in tavoli secondari, su un tavolo di assoluta importanza come questo le élites progressiste hanno fatto propria la visione delle grandi corporation dell’high tech, dei grandi conglomerati industriali. Sviluppo economico a ogni costo, la ricchezza cambierà le cose.
Questo atteggiamento ha isolato i conservatori, lasciandoli privi di un interlocutore e irrigidendoli nelle loro posizioni.
L’elezione di Trump, quindi, e l’inconfessabile patto tra la destra tradizionale e l’Alt-Right, ha indubbiamente esacerbato la reazione americana – provocando un improvviso e imprevedibile ribilanciamento globale – ma ha una lunga e tortuosa storia alle spalle, che coinvolge l’inedia e l’indifferenza delle élites progressiste.
Ed è molto difficile prevedere quale sarà il prossimo rilancio americano, dopo Caracas. Ma una cosa è certa: gli americani non molleranno la presa fino a che la potenza cinese non sarà ridimensionata. O fino a che il Partito Comunista Cinese (PCC) non scenderà a patti, mettendo sul piatto una road map per la democratizzazione del Paese.
Una volta che un treno come questo si mette in moto – e come detto in precedenza era partito ben prima dell’elezione del tycoon – non si ferma prima della fermata prevista. Che Trump venga riconfermato o che venga eletto un Presidente democratico.
Twitter @enricomariutti