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Trump contro Fed, perché la banca centrale non può essere intoccabile
L’autore di questo post è Matteo Gallone, dottore in Scienze dell’Economia e della Gestione Aziendale, specializzando in Intermediari, Finanza Internazionale e Risk Management all’Università di Roma La Sapienza –
Ci si aspettava un fine anno senza amare sorprese per l’economia globale. Purtroppo, qualcosa è andato storto. Ciò che ha contributo ad infuocare lo scenario finanziario internazionale durante queste due ultime settimane è stata le volontà (celata e non) del presidente Trump di voler licenziare il presidente della Federal Reserve, Jerome “Jay” Powell.
La banca centrale americana, nell’ultima riunione – nonostante siano “emerse alcune correnti di prua” nei mercati, l’inflazione sia inferiore all’obiettivo del 2% e in calo, la crescita globale rallenti e quella degli Stati Uniti sia vista in frenata nel 2019 tra il 2% e il 2,5% da almeno il 3% del 2018 – ha deciso di alzare di un altro 0,25 il tasso di interesse.
Gli appelli di Trump a lasciar respirare l’economia Usa non sono stati accolti dal board della Riserva Federale, che ha tirato dritto, disponendo la quarta stretta monetaria annuale. In molti si stanno interrogando sulla legittimità delle intenzioni del presidente Trump. Occorre precisare che Trump, dopo le numerose critiche pubbliche verso la Fed, non ha direttamente comunicato la volontà del licenziamento, ma secondo diverse indiscrezioni ha provveduto a chiedere ai suoi collaboratori se un presidente ha il potere per promuovere un’azione del genere.
Senza dubbio sarebbe un evento senza precedenti nella storia del central banking, che porterebbe ad un incremento del livello di incertezza economica e, in particolare, ad un acceso conflitto tra i vari centri di potere.
La legge che regola il Federal Reserve Act prevede la rimozione del governatore “per giusta causa dal Presidente”. Tuttavia è un’azione che dovrebbe essere limitata esclusivamente a casi di irregolarità o illegalità. Sarebbe del tutto singolare assistere ad un licenziamento di un governatore della Fed la cui unica colpa sarebbe quella di aver preso decisioni di politica monetaria non gradite all’amministrazione centrale.
Indipendenza e Accountability: conditio sine qua non
Un simile attacco all’autorità centrale della politica monetaria di un Paese metterebbe in discussione l’indipendenza e la credibilità dell’istituzione stessa. Le banche centrali sono uscite molto trasformate dalla crisi. Siamo entrati nella Grande Crisi del 2007 con un’idea di banca centrale concepita ancora come una tecnostruttura indipendente, che si occupava della politica monetaria, garantendo la stabilità dei prezzi e (in alcuni casi) la crescita occupazionale. Gli eventi economici negativi di questi ultimi anni hanno fatto sì che gli istituti centrali iniziassero a svolgere anche una funzione di supplenza verso ciò che i governi (per ragioni politiche) non riescono più a fare, sia per mancanza di risorse dirette di rilancio (Stati Uniti e Regno Unito) o perché non riescono a trovare un accordo politico adeguato al problema del debito dei paesi periferici.
Concentriamoci per un attimo sul processo logico che si cela dietro alla costruzione del “muro” che ripara una banca centrale dalle interferenze politiche. Una banca centrale deve ottemperare al suo mandato. È evidente che, al pari di ogni altra istituzione, può incorrere in errori di natura sistematica, che potrebbero anche indurla a fare cose che contrastano con il suo mandato. È pertanto importante che esista un meccanismo atto a verificare se una banca centrale ottemperi al proprio mandato e, qualora non lo rispetti, vi sia la possibilità di applicare sanzioni. In una società democratica, i politici vengono investiti del potere e lo esercitano con un elettorato che valuta rigorosamente l’operato degli stessi (accountability). Logicamente, i politici non possono fare tutto da soli,: per questo delegano alcuni compiti a istituzioni specializzate.
Il processo di delega è così caratterizzato sia da un contratto che specifica obiettivi e mezzi per conseguirli, sia da una valutazione delle performance dell’istituzione delegata. Viene quindi offerta una forma di indipendenza e, al contempo, viene garantita una forma di controllo sull’operato di cui l’istituzione è responsabile.
Quanto più potere un governo delega, tanto più efficace dovrà esser il controllo sull’esercizio del potere delegato. Nel caso di una banca centrale, se il governo le delega un ampio potere, dovrà risponderne in misura adeguatamente elevata. Indipendenza e accountability sono quindi aspetti inscindibili del processo di delega. Per cui, quanto maggiore è l’indipendenza che la politica garantisce, tanto maggiore è il rischio che si accolla, e tanto più vorrà cautelarsi organizzando un sistema di controllo sulla performance della banca centrale stessa.
Le modalità di delega di potere a favore di una banca centrale implicano la sottoscrizione di un contratto in cui vengono specificati gli obiettivi da perseguire, il metodo da seguire per il loro conseguimento, nonché le procedure di sanzione se gli obiettivi non sono raggiunti. Proprio per questo motivo, risulta evidente che le azioni mosse da Jay Powell non possono essere oggetto di attacco.
La banca centrale più indipendente (di conseguenza assai poco sindacabile) al mondo è la BCE, la quale però mostra un grado di accountability inferiore rispetto alle altre varie istituzioni monetarie (trade off inverso). Non a caso, le implicazioni tra Fed e BCE sono piuttosto differenti. Il presidente della Fed ha di fronte un Congresso che può modificare lo statuto dell’istituzione che egli presiede. Questo fa sì che le opinioni dei membri del Congresso non debbano essere mai trascurate dal board centrale.
Il presidente Trump nonostante si trovi a collaborare con un’istituzione monetaria intuitivamente più flessibile rispetto alla BCE o alla Bank of England, non riesce a mandare giù il mancato supporto politico da parte della politica monetaria.
Le motivazioni dietro all’innalzamento dei tassi
Vari analisti hanno fatto notare che la crescita economica USA è rallentata nell’ultimo trimestre e che la misura di riferimento della Fed, ossia l’inflazione (il tasso di aumento del prezzo delle spese per i consumi) è scesa al di sotto del livello obiettivo ufficiale del 2%.
Dato che la Fed di Powell ha sovente sottolineato che la politica di livellamento dei tassi di interesse è strettamente legata all’evoluzione dei dati, ci si chiede perché l’autorità monetaria abbia proseguito con il piano precedentemente annunciato di continuare ad inasprire le condizioni monetarie.
Le dichiarazioni del FOMC (Federal Open Market Committee) relative all’ultimo rialzo dei tassi d’interesse non hanno fornito alcun motivo esplicito su tale decisione. Di conseguenza, neanche le affermazioni del presidente Powell durante la conferenza stampa hanno riportato motivazioni reali per proseguire l’aumento dei tassi inizialmente previsto, nonostante il rallentamento economico.
La determinazione del livello appropriato del tasso di interesse dipende dal bilanciamento di una serie di condizioni mutevoli nel tempo. Quindi ci chiediamo: quali considerazioni il FOMC avrebbe dovuto prendere in esame per arrivare ad aumentare nuovamente il tasso di interesse e proiettare un tasso più elevato nel 2019?
Ci sono tre possibilità:
1) Innanzitutto, l’attuale livello del tasso di interesse reale (corretto per l’inflazione) è notevolmente basso. Il più recente tasso annuo di inflazione misurato dall’aumento dell’indice dei prezzi al consumo è stato del 2,2%. Sottraendo tale inflazione dal tasso di interesse dei fondi federali nominali del 2%, il tasso di interesse reale è leggermente negativo prima del recente aumento e approssimativamente tendente a zero anche dopo l’aumento stesso. Un tasso reale pari a zero potrebbe essere appropriato in un’economia in fase di acuta depressione, di certo non in un’economia dove il PIL reale è in crescita a più del 3% nell’anno corrente e il tasso di disoccupazione è ad un livello eccezionalmente basso, ossia al 3,7%.
Un tasso di interesse reale estremamente basso può causare una serie di gravi conseguenze. Le imprese rispondono al basso costo del capitale assumendo eccessivo debito. Gli istituti di credito per raggiungere un rendimento in linea con le aspettative concedono prestiti a mutuatari di bassa qualità e impongono condizioni meno restrittive sui prestiti. I governi sono indotti a gestire ampi disavanzi perché il costo degli interessi per il servizio del debito risultante è relativamente basso.
2) Una seconda motivazione all’innalzamento del tasso di interesse è che il FOMC ora necessita di un livello più alto per poter ridurre i tassi di interesse in futuro, durante una successiva crisi economica, quando dovrà dare uno stimolo alla domanda. Come molti hanno notato, l’attuale espansione economica è una delle più lunghe dalla seconda guerra mondiale: è durata 114 mesi dalla ripresa iniziata a giugno 2009. Oggi iniziano ad intravedersi segnali di fragilità, tra cui il marcato calo dei listini azionari, una non nascosta debolezza del settore immobiliare, una prolungata flessione nelle performance economiche dei principali paesi europei e grande incertezza sul livello delle esportazioni USA.
3) Infine, la presunta terza ragione per cui il FOMC potrebbe aver deciso di aumentare il tasso, è di riportare il tasso reale al cosiddetto livello “neutrale”. Secondo alcuni economisti, il tasso neutrale è diminuito sostanzialmente negli ultimi anni. Tuttavia, il tasso di interesse reale non è un semplice numero da calcolare, come può esser il tasso di inflazione. Esso deve essere stimato con un modello economico assai complesso. Powell e i suoi predecessori hanno spesso sottolineato che è estremamente complicato conoscere il valore di questo livello “neutrale”. Proprio questa elevata incertezza sull’individuazione del tasso neutrale e la conseguente dilatazione temporale con cui la politica monetaria riesce ad incidere sull’economia reale, si può sostenere la tesi a favore di un innalzamento graduale dei tassi. Sicuramente l’appiattimento della curva dei rendimenti del Tesoro americano ha dato una forte spinta alla promozione di manovre restrittive, che possono soffocare la crescita più di quanto la Fed non intenda fare e di quanto Trump sia disposto a sopportare.
In conclusione
Le recenti crisi ci hanno insegnato che la politica economica va avanti a compromessi. C’è chi vince e chi perde. Non è questione di pura tecnocrazia. La politica monetaria richiede di trovare la giusta combinazione tra inflazione e disoccupazione. Non si tratta, quindi, di esclusivi livellamenti teorici, bensì si tratta di decisioni intrinsecamente politiche. Le banche centrali devono esser sì indipendenti, ma non ispirate da criteri tecnocratici. L’indipendenza aumenta la credibilità e attraverso tale sovranità la banca centrale non cederà a richieste espansionistiche populiste. Tuttavia, non è detto che pur avvalendosi dei migliori tecnocrati un istituto centrale possa delineare la miglior politica monetaria.
Di conseguenza, un governo non può permettersi di alterare il ciclo ordinario del processo decisionale indipendente per assecondare il ciclo politico-elettorale.
Come dice Mervyn King, ex governatore della Bank of England, le banche centrali hanno raggiunto la maturità, non ancora la vecchiaia. Non è tempo di metterne in discussione l’indipendenza e di far prevalere la politica sulle istituzioni monetarie, ma allo stesso modo è pericoloso attendersi più di quanto esse possano dare. Non sono l’unica opzione disponibile ai vari problemi economici ed il processo puramente tecnocratico con il quale vengono amministrate andrebbe rivisto sulla base di una maggiore trasparenza (poiché l’eccessiva riservatezza nel tempo sembra abbia avuto più lo scopo di nascondere decisioni errate) e di un inquadramento più democratico, tramite interventi che siano orientati più verso l’interesse dei cittadini che non verso quelli degli intermediari. Le misure restrittive di Powell sono solo la conseguenza del ciclo sperimentale monetario targato Bernanke-Yellen-Powell. Il risultato di questo stress test verrà rivelato solo al termine del ciclo monetario.
Chi vivrà vedrà.
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