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Pensioni, spinte autarchiche, regole europee: quando all’economista fa difetto la logica
L’autore di questo post è Civil Servant, pseudonimo di un economista che lavora nella Pubblica Amministrazione e preferisce rimanere anonimo –
Errori logici come la “fallacia di composizione” e un sofisma noto come “non sequitur” sono molto comuni in economia. Ad esempio, trascurare le interazioni tra i soggetti coinvolti in un processo economico porta a raccomandazioni di politica economica controproducenti sia per il commercio internazionale, sia per le regole fiscali europee. A sua volta, una arbitraria interpretazione causale dei rapporti tra l’impiego dei lavoratori giovani e quelli anziani suggerisce politiche previdenziali e del mercato del lavoro inappropriate.
Più di 2.300 anni fa, Aristotele ci ha lasciato una minuziosa classificazione dei sofismi, ovvero dei ragionamenti solo in apparenza corretti, che però sembra ancora trascurata da molti economisti contemporanei. Alcuni di questi errori logici sembrano essersi concentrati nel dibattito corrente sul protezionismo, sull’Europa e sulle politiche previdenziali.
Uno dei sofismi più insidiosi è la “fallacia di composizione”, che consiste nell’estendere ad un aggregato le proprietà e i comportamenti tipici delle sue parti, perché non sempre “è la somma che fa il totale”, come diceva Totò. Di ragionamenti simili abusano spesso gli economisti più ortodossi, che per spiegare i fenomeni macroeconomici studiano sofisticatissimi agenti rappresentativi che però non interagiscono tra loro, anche se il risultato finale di molti processi economici dipende proprio dalla competizione o dalla cooperazione tra i soggetti coinvolti.
Anche dal punto di vista del bilancio energetico, una competizione spinta peggiora il risultato finale, perché i contendenti sprecano gran parte delle loro risorse per combattersi, raggiungendo così un risultato inferiore a quello che avrebbero a portata di mano arrivando ad un accordo. In qualsiasi sport la combine e il “biscotto” sono condannati, ma in economia, dove l’etica sportiva è poco popolare, John Nash ha vinto un premio Nobel proprio teorizzando simili pratiche.
Un esempio clamoroso di fallacia di composizione si ritrova nei modelli di crescita guidati dalle esportazioni, che affidano la prosperità di ciascun paese alla sua capacità di vendere i propri prodotti al di fuori dei propri confini. A meno di immaginare l’arrivo massiccio di consumatori alieni, questo modello non può evidentemente funzionare per tutto il nostro modesto pianeta.
L’intensificazione degli scambi può essere effettivamente un volano dello sviluppo, ma puntare solo sulla competitività sui mercati internazionali non risolve molto a livello globale. Alla fine di una guerra commerciale, di una sequenza di svalutazioni competitive o di una riduzione generalizzata dei prezzi, restano tipicamente molte macerie e poco sviluppo. In altri termini, ciò che sembra vantaggioso per un singolo paese può risultate disastroso per l’economia globale. Eppure la deflazione salariale e la competitività sono ingredienti che non mancano mai nelle ricette delle istituzioni internazionali.
Sorprendentemente, anche il protezionismo e l’autarchia, tornati recentemente in auge, sembrano il risultato dello stesso tipo di errore logico. Se dazi e barriere alle importazioni sono elevati da un solo paese, è probabile che la produzione interna ne tragga qualche vantaggio, ma se questo stesso comportamento fosse messo in atto da tutti i paesi contemporaneamente il risultato finale sarebbe soltanto una contrazione del mercato globale e quindi un ridimensionamento generalizzato dell’attività produttiva e dell’occupazione.
Dando per scontata la necessità di avere finanze pubbliche solide, l’interazione tra tutti i soggetti coinvolti sembra trascurata anche dalle regole fiscali europee. I limiti al debito, al deficit e quello, meno noto, alla spesa pubblica sono infatti calcolati solo per i singoli paesi, senza alcun riferimento all’Unione Europea nel suo complesso. In altri termini, non è prevista alcuna verifica formale che il risultato complessivo di politiche conformi ai Trattati sia anche appropriata per l’Unione considerata come un unico paese.
Ad esempio, l’austerità richiesta ad un singolo paese riduce la domanda aggregata in tutta l’Unione, peggiorando ulteriormente le prospettive di crescita del paese e le sue entrate fiscali. Ciò innesca un circolo vizioso di ulteriori restrizioni fiscali, richieste per compensare la minore crescita, e rallentamenti in tutto il resto dell’Europa. Così una misura che potrebbe essere anche adeguata per un singolo paese isolato finisce per avere effetti controproducenti su tutta l’Unione. I Trattati prevedono alcuni modesti correttivi solo in caso di gravissime recessioni.
Un altro sofisma, tra i più amati dagli economisti, è denominato “non sequitur”. Consiste nel dedurre relazioni causali da semplici associazioni tra eventi e fatti. Il fascino di questo errore logico è che coinvolge fatti assolutamente veri, a differenza della fallacia di composizione, in cui risultati individuali e aggregati possono stridere tra loro. Una delle ultime applicazioni di questo modo di ragionare riguarda gli effetti di un anticipo dell’età minima per il pensionamento. I sostenitori di questo provvedimento prevedono, forse un po’ ingenuamente, che ogni pensionato verrà prontamente sostituito da un lavoratore più giovane, con evidenti benefici per la disoccupazione e per la carriera degli under 30.
A questa argomentazione, c’è chi replica che il numero dei posti di lavoro non è predeterminato in ogni istante e che, in ogni caso, la sostituibilità tra giovani e anziani (anche indiretta) è molto limitata. Pertanto incoraggiare i pensionamenti precoci farebbe solo aumentare la disoccupazione (e l’inattività) complessiva, aggravando anche quella giovanile. A sostegno di questa tesi, viene presentata l’evidenza incontestabile che proprio nei paesi con una più elevata occupazione degli anziani sono al lavoro anche più giovani. L’argomento è accattivante, e suggerisce numerose analogie sportive.
Per esempio si potrebbe ragionevolmente sostenere che la corsa sui 100 metri sviluppa bicipiti e pettorali, perché i campioni di questa specialità sono generalmente molto muscolosi anche dalla cintola in su. È anche plausibile che i tennisti, pur giocando con un braccio solo, abbiano un fisico abbastanza armonico proprio perché praticano questo sport. Sfruttando a fondo il “non sequitur”, si può anche dedurre che una squadra è più forte di un’altra perché ha vinto uno scontro diretto, anche nei casi in cui la fortuna e l’arbitro l’abbiano aiutata, nonostante la classifica dica il contrario.
Simili tesi sarebbero ritenute risibili in qualsiasi bar di paese, perché uno sportivo professionista ha un fisico atletico semplicemente perché deve seguire anche un allenamento generalista o addirittura finalizzato a compensare eventuali asimmetrie, e le prestazioni e potenzialità di una squadra possono essere oggetto di giudizi articolatissimi. Invece sembra che nelle caffetterie delle facoltà di economia si faccia fatica a capire che sia anziani che giovani lavorano di più nei paesi in cui c’è in assoluto più lavoro, senza che questo comporti alcun effetto di traino dell’occupazione dei senior su quella dei junior.
È noto che la fisica quantistica ha messo in crisi il concetto di causalità, prevedendo fenomeni inquietanti come l’entanglement, ossia una trasformazione che avviene contemporaneamente su due particelle che distano anche anni luce tra loro e senza che vi sia alcun rapporto fisico, oppure il principio di indeterminazione, che condiziona la vita di un povero gatto all’apertura della scatola in cui è chiuso assieme ad una micidiale trappola che scatta al passaggio di un quanto di energia. Questo potrebbe essere un ottimo alibi per gli economisti che propongono con disinvoltura relazioni causali tra fatti probabilmente indipendenti tra loro.
Tuttavia anche la meccanica quantistica ha dovuto fare i conti almeno con la fallacia da composizione, prevedendo la convergenza delle sue leggi verso quelle della fisica classica per spiegare il comportamento di masse significative di materia, in cui le stranezze dei quanti si annullano come gli sforzi di centinaia di paesi in competizione tra loro sullo stesso mercato. Altrimenti ci muoveremmo a scatti emettendo bagliori e radiazioni, come fanno gli elettroni; passeremmo indenni davanti agli autovelox, perché sarebbe impossibile stabilire contemporaneamente velocità e posizione; non avremmo troppi problemi di spazio sui mezzi pubblici, avendo la stessa natura delle onde che interferiscono tra loro senza eccessivi fastidi; e soprattutto fare l’arbitro di una partita con giocatori dalla posizione incerta e azioni che sfruttano l’entaglement sarebbe un incubo anche con la VAR.
Invece nella maggior parte dei modelli economici le imprese massimizzano i propri profitti indisturbate come se fossero sole al mondo; consumatori e imprese non si danno fastidio tra loro e quindi inquinamento e traffico non esistono; ogni prodotto trova un acquirente anche se tutti i prezzi devono rimanere positivi; il Pil può crescere indefinitamente anche se il mondo va inesorabilmente verso una fine, se non altro per rispettare la classicissima seconda legge della termodinamica. Prendendo esempio dai fisici, che hanno risolto problemi simili quasi un secolo fa, gli economisti di oggi potrebbero almeno evitare certi paradossi, cominciando a prendere in seria considerazione anche l’uso di strumenti come i modelli “agent based”, la teoria dei giochi e le reti neurali. Non è escluso che ne guadagnerebbero la comprensione della realtà e soprattutto la qualità delle politiche economiche.