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Tasse sulle imprese, i giochi di prestigio spacciati per crescita
Sabato 8 dicembre, Luigi Di Maio ha inviato una lettera a “Il Sole 24 Ore”. Si può considerare come un buon segnale, tendente al dialogo con il tessuto imprenditoriale. Dopo mesi passati a diffondere una cultura ostile, appare opportuno che il Governo voglia ascoltare le imprese. Se le intenzioni non possono essere biasimate, preoccupano maggiormente i contenuti. Uno degli argomenti trattati nella lettera riguarda il capitolo delle tasse sulle imprese: «Iniziamo ad abbassare le tasse» scrive Di Maio. Contemporaneamente, il Ministro elenca le misure in materia che l’Esecutivo si appresta ad adottare.
Si inizia con quello che è rimasto dell’idea flat tax, una sorta di topolino partorito da una montagna. Dal 2019, 15% di aliquota per le partite Iva e le piccole imprese con ricavi fino a 65 mila euro. Dal 2020, imposta sostitutiva opzionale al 20% per chi ha ricavi compresi tra i 65 i 100 mila euro.
Una misura che favorisce principalmente i lavoratori autonomi piuttosto che le piccole imprese. I primi hanno infatti costi meno elevati. Sicuramente avvantaggia i giovani professionisti che iniziano la carriera lavorativa e che hanno, pertanto, fatturati minori. Ma pone problemi di incentivi e di equità.
Gli stessi sono stati analizzati dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), in un’audizione parlamentare. Secondo il Presidente dell’UPB Pisauro. «(…) in corrispondenza del passaggio tra regime forfettario e quello con imposta sostitutiva (in corrispondenza della soglia di 65.000 euro di ricavo), si verifica una cosiddetta trappola di povertà (aliquota marginale superiore al 100 per cento) dovuta al disegno della tassazione per classi e non per scaglioni(…)»..
«Infatti se un aumento dei ricavi fa superare la soglia del regime forfettario, tutto il reddito subisce un incremento di aliquota di cinque punti e non solo la parte eccedente, come accade nel caso di imposta per scaglioni. (…) dunque, emergono dei forti disincentivi all’incremento dei ricavi, che possono incentivare anche l’evasione (…)». Ma da qui al primo gennaio 2020, chissà.
Vi è un altro tema di compliance, più nascosto. L’abbassamento dell’aliquota per i piccoli lavoratori autonomi di certo non aiuterà la lotta alla piaga delle false partite Iva. Soprattutto se si considera insieme alla stretta sui contratti a termine disposta dal Decreto Dignità.
In termini di equità invece, fa notare ancora Pisauro che «(…) la riforma introdotta con il disegno di legge di bilancio si applica a una ampia porzione del lavoro autonomo: circa l’80 per cento dei lavoratori autonomi e delle imprese individuali si colloca sotto la soglia dei 100.000 euro di fatturato».
«Questo assetto configura un sistema speciale di tassazione per particolari tipologie di contribuenti (imprenditori individuali e lavoratori autonomi), che sussiste in parallelo a quello dell’imposta personale progressiva al quale rimangono sottoposti i lavoratori dipendenti, i pensionati e gli altri contribuenti non coinvolti (…) (ad esempio, un lavoratore dipendente con 40.000 euro di reddito paga circa 5.000 euro di imposte sul reddito in più di un autonomo in regime forfettario; il differenziale passa a circa 11.500 euro in corrispondenza di un imponibile di 80.000 euro)».
Tali effetti distorsivi si verificano quando si vuole adottare una riforma (la flat tax) che dovrebbe essere necessariamente completa per dispiegare i suoi effetti, ma -non potendola implementare per motivi di risorse- si finisce per scompigliare ancor di più un sistema fiscale iniquo e inefficiente pur di sventolare una bandierina.
Passiamo a un altro punto della lettera. «Abbassiamo sensibilmente l’Ires. La riduciamo di 9 punti, dal 24% al 15%, ed estendiamo questa aliquota al 15% anche ai soggetti Irpef che investono utili in beni strumentali. I contratti di lavoro che rientrano nell’agevolazione sono quelli a tempo indeterminato e determinato».
Il Ministro sembra voler far credere al lettore che l’aliquota Ires venga ridotta di ben 9 punti percentuali. Non ci è dato sapere l’intenzionalità del passaggio, ma ovviamente non corrisponde al vero (altrimenti costerebbe miliardi di euro). In realtà, la misura riguarda gli imprenditori che decideranno di non intascare tutti gli utili conseguiti. Sulla parte di tali utili destinati a investimenti in beni strumentali o nuove assunzioni, si applicherà l’aliquota ridotta. Suona un po’ diverso.
Anche qui però, il Ministro omette dei fatti altrettanto importanti. La misura infatti non è stata accolta con favore dal mondo imprenditoriale, poiché contestuale all’abrogazione di altre misure giudicate più importanti. Come detto in audizione parlamentare dal Presidente dell’Istat: «Nel complesso i provvedimenti analizzati generano una riduzione del debito di imposta IRES per il 7% delle imprese, mentre per più di un terzo tale debito risulta in aumento».
«L’aggravio medio di imposta è pari al 2,1%: l’introduzione della mini-IRES (-1,7%) non compensa gli effetti dell’abrogazione dell’ACE (+2,3%) e della mancata proroga del maxi-ammortamento (+1,5%)».
Tornando alla lettera, Di Maio conclude il capitolo tasse con ottimismo. «La pressione fiscale inizia quindi a scendere e inizia a scendere per quelli che hanno sempre pagato di più fino ad ora, i più piccoli».
Come segnalato da Luciano Capone, la tassazione sulle imprese aumenterà di oltre sei miliardi nel 2019. Dovrebbe poi scendere negli anni a venire. Si obietterà che gran parte degli aumenti di tasse riguardano il settore finanziario e assicurativo e non i “piccoli”. Tuttavia, servirebbe uno sforzo riflessivo maggiore. Tra chi paga formalmente le tasse e chi ne sostiene realmente il peso (famiglie e consumatori), sussiste una grande differenza.
Non è da escludere che il nuovo dialogo in corso porti a nuove agevolazioni fiscali per le aziende. Si rischia però di portare avanti qualche misura di breve respiro e di scarso impatto, con coperture da trovare.
Bene il dialogo, ma la cultura della crescita non si improvvisa con misure estemporanee.
Twitter @frabruno88