categoria: Vicolo corto
Italia incattivita, l’unica soluzione è imparare dai Tre Porcellini
Lo abbiamo letto un po’ ovunque in questi giorni. Nel rapporto 2018 del Censis emerge il ritratto di un’Italia spaventata, arrabbiata e incattivita. Il comunicato stampa di presentazione è di non facile lettura. I toni sono cupi, i periodi ricchi di subordinate. Ne riprendo solo un breve estratto:
“La delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani. Ecco perché si sono mostrati pronti ad alzare l’asticella. Si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall’esito incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. E non importa se si rendeva necessario forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche. È stata quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vincesse sull’attuale.
È una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive”.
Non è un quadro rassicurante quello che viene descritto. Eppure io credo che la situazione sia più semplice. E in qualche modo anche facilmente prevedibile con il senno di poi. Il Paese non cresce. Da troppo tempo non cresce. A questo di aggiungono ulteriori cause da troppi a livello politico sottovalutate:
1. Lo Stato ha creato troppi privilegi e garanzie per alcuni ed assenza per altri. In realtà spesso il Paese di contorce in un intricato sistema di favori e sfavori che in qualche modo si bilanciano. Esempio lampante le pensioni che garantiscono a molti una rendita immeritata a danno delle giovani generazioni. Rendita che però viene spesa a favore di figli e nipoti. Rendendo cosi tutto immobile, garantito da pesi e contrappesi;
2. Una zona sempre più ampia del Paese (non parlo solo di nord e sud) non rientra nei radar del business per burocrazia, assenza di infrastrutture, criminalità, ecc;
3. La lunga crisi ha fiaccato gli imprenditori che da troppo tempo hanno smesso di chiedere una riduzione delle tasse per domandare a gran voce sussidi ed agevolazioni;
4. Molti imprenditori sono impoveriti dalla crisi e smarriti da globalizzazione ed innovazioni, che li hanno resi incapaci di reagire. Quindi sono tornati a chiedere tutele e assistenza, piuttosto che infrastrutture per vincere le sfide del mercato. Proprio come gli operai che furono un tempo. È un fenomeno prima di tutto sociale e drammatico, ancora poco approfondito, di perdita di ruolo, di non riuscire più a vedersi come un tempo. Paradossalmente oggi è proprio dagli operai liguri che chiedono lavoro e non reddito di cittadinanza o da una parte della Cisl che arrivano alcune tra le reazioni più credibili e responsabili.
Il Paese oggi non solo deve vincere l’immobilismo (questo la classe politica l’ha chiaro, non sa come fare ma l’ha chiaro) soprattutto deve vincere il terrore di chi teme di non aver gli strumenti per riuscire a cambiare. O addirittura di non essere più in tempo per cambiare.
La rabbia e la paura descritte nel rapporto del Censis a mio parere sono proprio questo: non tanto la reazione a privilegi e crisi economica ma, molto più grave, alla sensazione di non essere più in grado di battersi per cambiare le cose. Manca la speranza.
Quello che terrorizza è la paura che in Italia il sistema non abbia più le risorse ed i meccanismi per autoriformarsi e migliorare, seppur con il duro lavoro, la condizione individuale. Come lo studente svogliato che dopo qualche mese pur riprendendo a studiare si rende conto di esser troppo in ritardo, di non riuscire più a comprendere quanto spiegato dal professore. E si arrende, magari facendo un po’ il bullo in classe. Molti hanno già evidenziato la necessità di far ripartire l’ascensore sociale. Verissimo e tremendamente urgente. Ma c’è di più.
Qui manca l’ascensore culturale. Le élite sconvolte dall’aggressività delle “masse ignoranti” sui social (che altro non sono che persone che non sono riuscite a comprendere per tempo le dinamiche del cambiamento e ne sono rimaste spiazzate) reagiscono con pari aggressività emarginando anche chi avrebbe voglia di capire meglio, di riprendere a studiare usando la precedente metafora.
Se il problema sono i social network, forse la soluzione è ricreare un tessuto fuori dai social network. Occorre ripartire dai corpi intermedi che non a caso (seppur tra mille travagli interni) stanno dando prova di se in quello che Dario Di Vico chiama forse impropriamente “il partito del Pil”. La soluzione a tutto questo in fondo la troviamo rileggendo la storia dei tre porcellini. È vero che c’era chi colpevolmente costruiva una casa di paglia. E preferiva non far fatica, passando il tempo a suonare il flauto. È vero che c’era chi si illudeva fosse sufficiente costruire la casa in legno. Quando però è arrivato il lupo, il più saggio ha aperto le porte della sua casa di mattoni. Per proteggere i fratelli più sconsiderati.
Forse in Italia dobbiamo partire da lì. Riaprendo porte ed insegnando a costruire case di mattoni. Anche a chi oggi (per vari motivi, colpa, sfortuna o altro) non è in grado di farlo. Perché l’opportunità è l’unico antidoto alla rabbia ed alla frustrazione.
Twitter @commercialista