categoria: Distruzione creativa
Se il futuro è tecnologico, l’Italia appartiene di diritto al passato
Nel recente “Global Tech Hubs Report” CB Insights indica 25 “metro area” dove sono presenti i più importanti hub tecnologici, fra questi solo 6 sono europei (Amsterdam, Barcellona, Berlino, Londra, Parigi, Stoccolma); come vedremo, gli hub più importanti hanno una “potenza di fuoco” senza paragoni con le “cartuccelle” italiche, disperse su 97 incubatori ed acceleratori, 40 parchi tecnologici, 65 spazi di “crowdfunding”: una dispersione di intelligenza, “focus”, risorse, energie e competenze che fotografa la situazione farraginosa, dispersiva, poco focalizzata e povera di risorse finanziarie del nostro paese. Il confronto è impari: i 200 siti italici assorbono meno di un quarto degli investimenti annui fatti nella sola Tel Aviv, una delle piazze più dinamiche ed avanzate nel settore dell’alta tecnologia. Ma più che piangere sulle domestiche debolezze, è meglio esaminare che cosa avviene nel mondo e quali dinamiche virtuose derivano dal lavoro e dalla intelligenza profusa nei “tech hub” in giro per il mondo.
Accanto ai 6 hub europei, tra i primi 25 mondiali troviamo 8 hub negli Stati Uniti (accanto alla “mitica” Silicon Valley, ecco Austin, Boston, Denver, Los Angeles, New York, Seattle, Vancouver), 1 in Israele (Tel Aviv), 1 in Brasile (San Paolo), 1 in Australia (Sydney), 1 in Canada (Toronto), 7 in Asia (Mumbai, New Delhi, Bangalore, Pechino, Seul, Shanghai, Tokio), un caleidoscopio della diffusione di innovazione e cultura tecnologica ed industriale. I “pesi massimi” restano Silicon Valley, Boston, Londra, Los Angeles, New York e Tel Aviv; gli “hub” a maggiore crescita includono Austin, Bangalore, Pechino, Berlino, New Delhi, Parigi, Seattle, Shanghai, Tokio, Toronto; a seguire, Amsterdam, Barcellona, Denver, Mumbai, San Paolo, Seul, Stoccolma, Sydney, Vancouver.
Alcuni dati sintetici possono aiutarci ad inquadrare il tema:
1. Dal 2012, nella Silicon Valley ci sono stati 12.000 operazioni che hanno coinvolto imprese tecnologiche, seguita da New York con 5.000; in termini di funding, nel periodo gennaio 2012 – maggio 2018, Silicon Valley ha visto una raccolta complessiva di 140 miliardi US$, seguita da Pechino con 75 miliardi US$ e poi New York (36 miliardi US$) e Shanghai (23 miliardi US$);
2. Silicon Valley ha avuto un numero di operazioni di “exit” (disinvestimento con quotazione o vendita a terzi), ciascuna di valore superiore a 100 milioni US$, 4 volte superiore, in numero, a quelle di New York, ed ancora maggiore di quanto fatto a Londra, Los Angeles, Pechino; parlando solo di “unicorn” (le start-up con una capitalizzazione superiore a 1 miliardo US$), Silicon Valley ha sinora “battezzato” 57 “unicorn”, Pechino 29, New York 13 e Shanghai 11;
3. Tel Aviv è l’“hub” più aperto ad investitori esteri, che hanno apportato oltre i 2/3 delle risorse a sostegno di start-up; 1 operazione di “exit” su 7 ha avuto un valore medio superiore a 100 milioni US$; in questa classifica Londra è seconda con il 44% di investitori esteri, seguono Silicon Valley (24%), New York (20%), Boston (16%); Tel Aviv è anche la preferita dagli investitori “corporate” (imprese e “venture capitalists”), con una quota del 25% sul totale raccolto (Silicon Valley è seconda con il 21%, seguita da Boston col 18%);
4. Fra i “pesi massimi”, nel periodo 2012-2017 ogni anno si sono realizzate in media 670 operazioni con un valore annuo totale medio di 38 miliardi US$ (controvalore dei prezzi di vendita e/o IPO); Silicon Valley, nel periodo 2012-2017, ha visto oltre 200 operazioni di “exit” con un valore superiore a 100 milioni US$;
5. Pechino e Shanghai stanno rapidamente scalando la classifica; nel periodo 2012-2017 Pechino ha visto perfezionarsi quasi 500 operazioni e Shanghai oltre 350; il futuro vedrà crescere il loro peso ed il loro ruolo, come quello degli altri “hub” asiatici, sia sui contenuti tecnologici che per i valori in ballo;
6. A Berlino quasi la metà del funding arriva da investitori esteri; Stoccolma ha visto crescere la sua importanza grazie all’IPO di Spotify (una delle più elevate del 2018) ed alla vendita di iZettle (a PayPal), che hanno portato a 648 le operazioni concluse dal 2012.
Il “fattore critico di successo” è la capacità di avere ritorni significativi sugli investimenti iniziali: l’“ecosistema” ha bisogno di vedere entrare il denaro, ma ancor più di vederlo uscire (sotto la forma di vendita, apertura del capitale a fondi ed investitori, quotazione/IPO); le più importanti operazioni di “exit” sono quelle che hanno interessato Facebook (IPO, 104 miliardi US$), Spotify (il più importante “unicorn” europeo, basato a Stoccolma; IPO, 29,4 miliardi US$), JD.Com (IPO cinese, 25,7 miliardi US$), Snap (IPO, 24,8 miliardi US$). In questa classifica, Silicon Valley svetta con 252 “exit” di valore unitario superiore a 100 milioni US$ fatte fra il 2012 ed il maggio 2018, largamente in vantaggio su New York (61), Londra (49), Los Angeles (43), Pechino (34), Boston (23), Tel Aviv (19). Se i primi investitori “guadagnano ed incassano”, maggiori saranno gli incentivi a ripetere operazioni di investimento nelle iniziative degli “hub”.
La tecnologia si “ciba” di finanza, intesa come investimenti da parte di imprese, privati investitori, fondi di private equity e venture capital; le buone idee nascono dove il “mix” fra competenze tecnologiche (le migliori e più dinamiche università, i campus, i “nerd”,…) e mezzi finanziari trova il terreno fertile per sviluppare idee e renderle attuabili; la voglia di innovare, inventare, confrontarsi con il mercato è la “sana malattia” che fa crescere l’industria e, in un circolo virtuoso, attraverso le tecnologie realizza il “salto di conoscenze e competenze” che rendono possibile e credibile il successo di una nazione e dei suoi (migliori) cittadini, una categoria affatto diversa da quanti vengono ipnotizzati e lobotomizzati dal miraggio desertico del reddito di cittadinanza.
Twitter @CorradoGriffa