Aumenti fino al 200%, tutta colpa dell’euro? E che dovrebbe fare la Bce?

scritto da il 03 Dicembre 2018

Nel 2001, poco prima dell’ingresso nell’euro, un cono gelato costava 1.500 lire, una penna a sfera 500 lire, un tramezzino 1.500 lire, una pizza margherita 6.500 lire, mentre, oggi, costano, rispettivamente, 3 euro, 1 euro, 2 euro e 7 euro. Il loro incremento, quindi, è stato pari a oltre il 200%, poco meno del 190%, poco più del 110% e quasi il 100%. Per giocare al massacro occorre conoscere tre semplici regolette: 1) stilare degli elenchi di prezzo pre-euro; 2) stilare elenchi di prezzo post-euro; 3) fare il confronto. Potremmo anche aggiungerne una quarta: proclamarsi economisti no-euro e farsi invitare in tv tra consenso e acclamazione di troll e consulenti last minute; ma il gioco cambierebbe immediatamente e si trasformerebbe in una provocazione.

Un dato è certo: i prodotti sopra ‘elencati’ sono quelli che hanno subito i maggiori tra i rincari. L’indagine in seguito alla quale sono stati collocati in cima alla lista è stata svolta dalla rivista Nens ed è stata successivamente ripresa da diversi quotidiani. Fin qui, nulla da eccepire. O meglio: nulla da eccepire, se non dobbiamo parlare di economia. In altri termini, se siamo alla ricerca di un passatempo enigmistico, possiamo continuare a parlare di aumento dei prezzi usando l’argomento come paraocchi per letture ‘riposanti’. Se invece vogliamo diventare adulti, dobbiamo evitare di sfruttare la risultanza di una ricerca a nostro piacimento.

Il linguaggio, ancora una volta, è decisivo. A seconda del modo in cui raccontiamo qualcosa, cambiano i significati e, soprattutto, l’effetto che essi hanno su chi ascolta. Ripartiamo da una domanda essenziale: qual è il valore dei 100 euro che conserviamo nel nostro portafogli? Qualcuno sbrigativamente potrebbe ribattere dicendo “Che domanda è? Il valore di 100 euro è 100 euro”. Invece, non è così. Il rendimento del denaro che possediamo è sempre, cioè con o senza euro, uguale alla cifra che crediamo di avere meno il tasso d’inflazione futuro. Dunque, 100 euro hanno anzitutto un valore nominale.

In effetti, non è facile rendersi conto di questo processo, fuorché nei periodi di iperinflazione, durante i quali per far valere il proprio denaro non si può fare altro che spenderlo immediatamente o, al massimo, nell’arco di qualche giorno. Si narra che nella Germania degli anni Venti, a causa dell’iperinflazione, nei ristoranti i camerieri, durante la cena, fossero costretti a passare dai tavoli più volte per comunicare ai clienti il cambiamento dei prezzi.

A ogni modo, quale che sia la congiuntura, situazione di stabilità e con un tasso d’inflazione che oscilli tra l’1 e il 3% al mese o di devastante instabilità e con un tasso d’inflazione del 500% mensile, l’equazione di rendimento del nostro denaro è la seguente: 100 euro reali=100 euro nominali – tasso d’inflazione futuro.

È forse colpa dell’euro?

Nella prospettiva dell’avversario designato, in effetti, tutti i mali possono essere riconducibili all’euro, in una sorta di revisione monetaria schizoparanoide. Nel quadro allucinatorio, tuttavia, le vittime dell’Eurotower, per paradosso, finiscono col chiedere alla BCE, con insistenza, interventi economici. “La BCE deve calmierare lo spread”, “La BCE deve ridurre o addirittura cancellare il nostro debito” e chi più ne ha più ne metta!

Di là dalla pochezza scientifica di certe pretese, la faccenda diventa addirittura comica. Perché? Perché ogni aumento dell’offerta monetaria si traduce in un aumento consequenziale e inevitabile dell’inflazione. Tanto più si chiede a una Banca Centrale di ‘stampare moneta’, quanto più si rischia di mangiare un gelato che costi 4 o 5 euro. Possibile che costoro non conoscano questi meccanismi? In alcuni, casi, sì, è possibile che non abbiano mai sentito parlare del rapporto tra moneta e inflazione. Ma in altri, no. E per quest’ultimi vale la regola del bluff o, addirittura, dell’inganno.

È appena il caso allora di fare la conoscenza di Irving Fisher, un economista del secolo scorso, il quale ha fatto notare che a ogni aumento dell’1% d’inflazione corrisponde l’aumento dell’1% del tasso nominale. Tale notazione ha preso il nome, non a caso, di effetto Fisher. Allo stesso modo, l’1% in più di moneta porta con sé l’1% in più di inflazione. In sostanza, detenere moneta ha un costo, che è espresso dal tasso d’interesse nominale e dal tasso d’inflazione.

Citare Fisher e il rapporto tra moneta e inflazione serve a consolare chi non può permettersi di andare in pizzeria, trattandosi di una ‘famiglia operaia’ monoreddito e con due figli? No. Un’interpretazione siffatta sarebbe malefica, oltre che strumentale e fuorviante. Se osserviamo il grafico dell’inflazione storica prodotto da inflation.eu, rileviamo facilmente un’apparente contraddizione tra la denuncia dei rincari da capogiro fatta emergere in apertura e, per esempio, l’inflazione media del 2017, che s’è attestata sull’1,23%. Tra le altre cose, se proprio vogliamo rispondere ai detrattori dell’euro, dal 2002 a oggi, cioè nel tempo dell’euro, l’inflazione è stata molto ben regolata e non s’è mai assistito a fenomeni di brusco rialzo come quelli degli anni Settanta.

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Com’è possibile che registrino tali scompensi?

Non è possibile. Infatti, non si tratta di scompensi. La domanda è stata posta in modo retorico-provocativo. La valutazione dei prezzi e del nostro potere d’acquisto non può essere fatta sulla base di elenchi ‘clamorosi’ o ‘rumorosi’.

Affinché se ne abbia contezza, infatti, è necessario consultare il paniere dei prezzi al consumo che l’ISTAT compone e rivede ogni anno sulla base della spesa fatta dalle famiglie. Il paniere del 2018 è composto da 1.489 prodotti, mentre in quello del 2017 ne figuravano 1.481: in pratica, sono stati inclusi l’avocado, il mango, i vini liquorosi, il robot aspirapolvere et cetera.

Il dato inflattivo si ottiene poi col metodo delle quotazioni mensili, veri e propri rilevamenti fatti dagli Uffici Comunali di Statistica, dall’ISTAT, dagli scanner data e dal Ministero dello Sviluppo Economico. E inoltre non si può fare a meno di ricordare che non tutti i prodotti hanno la stessa incidenza all’interno del paniere: i prodotti alimentari incidono per il 16,5%, laddove l’abbigliamento e le calzature incidono per il 7,2%.

Di conseguenza, prima di dire quanto costava una penna nel 2001 e quanto costa oggi, sarebbe il caso di dire quanto pesa nel paniere dei prezzi e come si è evoluto l’indice del paniere; altrimenti si fa disinformazione grossolana e propaganda antiscientifica. Un caso interessante ed esemplificativo potrebbe essere quello del burro, non perché ormai lo si trovi pure nei libri di scuola, ma perché costituisce un vero e proprio chiarimento. Nell’ultimo decennio, il burro ha subito oscillazioni significative, da importanti decrementi a molto più importanti aumenti. Se lo avessimo adottato come modello di propaganda, avremmo sicuramente ottenuto consensi. Tuttavia, se valutiamo la sua incidenza nel paniere di riferimento, ossia lo 0,1%, allora è chiaro che l’aumento in questione era quasi ininfluente.

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Le lagnanze sull’aumento dei prezzi sono un cavallo di battaglia del populismo della prima ora e, di fatto, nel tempo, non si smentiscono. Ma sono totalmente sbagliate. Una riduzione eccessiva dell’inflazione produrrebbe immediatamente un calo degli aggregati monetari e, di conseguenza, dell’offerta di moneta. I prezzi, in effetti, diminuirebbero, ma sarebbero seguiti dai ricavi delle aziende e, prima o poi, dai salari. Insomma, la famiglia dell’operaio, a un certo punto, la pizza non potrebbe mangiarla lo stesso.

In aggiunta, sappiamo per certo che il tempo dell’euro ha solo generato una percezione dell’innalzamento smisurato dei prezzi, non un innalzamento reale. Non è un caso che, in tanti altri settori, quali sono quello dell’elettronica e della telefonia, si sia invece registrato un ribasso.

In conclusione, quando si parla di moneta e di evoluzione dei prezzi, non si può tacere della quantità di transazioni che determinano la circolazione della moneta stessa e, di conseguenza, della produzione aggregata, dato che ogni variazione dell’offerta monetaria genera una variazione del PIL nominale. L’iniezione di liquidità da più parti selvaggiamente invocata comporterebbe un naturale incremento del tasso d’interesse nominale, cioè del costo cui andiamo incontro per il semplice fatto di detenere denaro. E sia chiaro: con la BCE o con una banca nazionale sovrana!

In presenza di un eccesso di ‘masse monetarie’, si potrebbe avere dunque una velocità di scambio elevata, una percezione di ricchezza altrettanto elevata, ma, in concreto, un impoverimento inesorabile. Dato che la quantità di moneta non influenza la velocità degli scambi, l’unica intensificazione si verificherebbe esclusivamente a vantaggio delle classi più ricche. A poco a poco, il crollo della domanda media e dell’occupazione sarebbe inevitabile.

Perché allora tanta insensatezza? Perché si continua a pretendere dappertutto che la BCE faccia follie? Dalla prospettiva del cittadino medio, l’imposta di inflazione è sempre un onere, quale che ne sia la scaturigine. E dal punto di vista delle imprese? Forse che qualcuno è disposto a credere che, con tassi d’interesse più alti, investirebbero di più?

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