categoria: Res Publica
Il Sud nella legge di bilancio c’è ma senza un’idea di sviluppo
Qualche mese fa ci interrogavamo su questi pixel sulle intenzioni del Governo Conte in merito alle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno. Già in quell’occasione avevamo registrato un atteggiamento della maggioranza teso a superare le politiche speciali per il Sud, come sottolineato dallo stesso Contratto di Governo, con l’intento manifestato di trattare allo stesso modo tutta la penisola.
Un’idea non del tutto malvagia di per sé, se non fosse però che i ritardi dell’economia meridionale appaiono talmente rilevanti che sembrerebbe quantomeno azzardato sperare in uno sviluppo autonomo senza prima ristabilire un minimo di level playing field.
Poche settimane fa è stato pubblicato il Bollettino Mezzogiorno, a cura di SRM, relativo al secondo trimestre 2018. Il Pil pro capite del Sud vale poco più della metà di quello del Nord. Nonostante alcuni miglioramenti rispetto al trimestre dell’anno precedente, sul tasso di occupazione ci sono più di ventidue punti di differenza, quasi trenta sul tasso di disoccupazione giovanile. Sull’export ci sono circa centottanta miliardi di distanza tra i valori del Sud e quelli generati dal Centro-Nord.
La flessione in corso rischia di penalizzare anche le eccellenze meridionali. Sono poche, ma di eccelsa qualità. Secondo un recente approfondimento a cura di SRM (nell’ambito del progetto “Impresa 2022“) sul settore manifatturiero, dal 2012 il divario in termini di fatturato è aumentato…
…ma i risultati cambiano se si guarda alle eccellenze.
Ci sono poi dei settori in cui alcune regioni meridionali emergono per un’alta specializzazione, come quello del lattiero-caseario…
Purtroppo, i numeri restano piccoli e non sono minimamente sufficienti a ridurre il gap. Sono tanti gli handicap territoriali che penalizzano maggiormente le imprese meridionali, dalle carenze infrastrutturali, alle inefficienze della Pubblica Amministrazione e della giustizia, alla presenza capillare delle criminalità organizzate. Ma su tutto questo non c’è traccia nella manovra.
Un altro grande problema delle imprese meridionali è di tipo dimensionale. Il 90% delle aziende manifatturiere ha meno di dieci dipendenti e quasi il 70% delle imprese è organizzata nella forma giuridica dell’impresa individuale. Ciò rende difficile l’accesso al credito, la programmazione degli investimenti, la formazione del personale. E rende anche più complicato l’accesso ai fondi della finanza alternativa. Come è emerso nel panel targato Econopoly agli Open Innovation Days, solo il 10% delle società emittenti mini-bond ha sede del Mezzogiorno.
Ma passiamo all’incrocio tra il Mezzogiorno e la legge di bilancio arrivata in Parlamento. Sulla questione dimensionale, la manovra sembra favorire il nanismo, con l’imposta sostitutiva al 15% per chi ha ricavi fino a 65 mila euro. L’unica novità sul punto è la riduzione IRES di nove punti percentuali per la parte di utili reinvestiti in beni strumentali ed assunzioni, ma la norma -nella versione attuale- è abbastanza enigmatica.
Per il resto, viene confermato lo sgravio contributivo per le assunzioni nelle regioni del Mezzogiorno, ma non si capisce perché si mantenga sia per le assunzioni di under 35 sia per quelle di over 35 privi di un impiego da almeno sei mesi (perché non si mantiene solo il primo?). Si allarga invece la platea dei potenziali beneficiari di Resto al Sud (il limite anagrafico di chi può accedere alle agevolazioni passa dai trentacinque ai quarantacinque anni), un programma che sta dando buoni risultati in termini di domande presentate (sarebbe tuttavia auspicabile la pubblicazione di dati disaggregati).
Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza (misura nazionale ma dai probabili impatti locali differenziati), come noto, sussiste il rischio di foraggiare un nuovo assistenzialismo, a causa dell’ inadeguatezza dei centri per l’impiego di favorire l’occupazione, in un mercato del lavoro annaspante e contrassegnato da un frequente ricorso al sommerso. Ma occorre attendere il provvedimento legislativo ad hoc, che sarà separato dalla legge di bilancio, per poterne valutare meglio i possibili effetti. In ogni caso, nella migliore delle ipotesi, potrebbe aiutare nel contrasto alla povertà, mentre poco (o nulla) potrà fare in termini di sviluppo economico.
In ultimo, con la legge di bilancio si cerca di dare attuazione a quanto previsto dal precedente Governo, ossia di riservare al Sud una quota di investimenti in conto capitale proporzionale alla popolazione (cosiddetta clausola del 34%). Potenzialmente può essere una misura significativa, ma l’attuazione e l’enforcement non saranno prive di ostacoli.
Provando a tracciare un primo bilancio, si può affermare che, a causa delle risorse limitate destinate allo scopo, l’impatto delle misure non potrà di certo essere notevole. Si tratta, tra l’altro, di misure ereditate dal precedente Esecutivo, in merito alle quali la valutazione di efficacia è ancora acerba. Manca, quindi, una visione di sviluppo complessivo, che possa tener conto anche delle differenze interne al Mezzogiorno stesso tra grandi città e paesini, zone costiere e zone montane.
Il Sud ha bisogno di sviluppare un’economia privata che possa diminuire la dipendenza dal settore pubblico, ma sono ancora troppi gli ostacoli territoriali che si frappongono tra l’obiettivo e la realtà. Gli investimenti pubblici dovrebbero riguardare infrastrutture, educazione, legalità, cultura d’impresa. E sul lato più prettamente economico gli incentivi andrebbero indirizzati verso la crescita dimensionale, le aggregazioni e le fusioni aziendali, i contratti di rete.
Arnaldo Bagnasco elaborò negli anni ’70 il concetto di “Tre Italie“. Alfonso Fuggetta, durante l’incontro summenzionato a cura di Econopoly, è andato anche oltre, affermando che l’Italia unita non esiste da un punto di vista economico. Tutto ciò, pur tenendo conto che la specialità a finalità assistenziale è dannosa, dovrebbe far riflettere sull’inevitabilità di elaborare policy territoriali differenziate.
Twitter @frabruno88