categoria: Draghi e gnomi
Lo spread, l’austerity e il vero problema della manovra, al di là degli zero virgola
Da circa un mese, da quando il Governo ha diffuso le prime stime ufficiose sugli obiettivi di deficit contenuti nella nuova manovra finanziaria, è ricominciato il balletto dello spread. In questo mese il differenziale di rendimento tra i titoli decennali italiani e quelli tedeschi è aumentato di circa 100 punti base, frutto delle rinnovate, mai sopite, tensioni politiche con la Commissione Europea e della scontata revisione al ribasso del giudizio sul debito pubblico da parte delle società di rating. Come atteso, il 19 Ottobre scorso l’agenzia Moody’s ha abbassato il rating portandolo al gradino più basso dell’investment grade, mentre il 26 Ottobre Standard and Poor’s, pur confermando il rating, ha rivisto al ribasso l’outlook.
La prossima manovra finanziaria rimane al centro di tutta questa turbolenza. L’obiettivo di deficit strutturale, il saldo di bilancio pubblico corretto per il ciclo economico, è previsto di nuovo in crescita e la Commissione ha già comunicato la propria indisponibilità ad avallare una deviazione così significativa rispetto al percorso di riduzione verso cui l’Italia si era impegnata. Anche Moody’s nella decisione di abbassare il proprio giudizio sull’affidabilità dei conti italiani rileva “un sostanziale indebolimento della posizione fiscale dell’Italia, con il Governo che mira verso un deficit di bilancio più elevato rispetto a quello ipotizzato da Moody’s per I prossimi anni”. Tutto questo contribuisce ad aumentare l’incertezza verso la sostenibilità del debito italiano, in un meccanismo che si autorafforza, con il debito pubblico italiano ormai da anni ad un passo dalla soglia dell’investment grade, quella soglia che se sforata impedirebbe a tutta una serie di investitori di acquistare il nostro debito ed alle banche di utilizzarli nelle operazioni di rifinanziamento con la BCE.
L’eredità della crisi del 2011/2012 è infatti ancora presente e concreta. Se pensiamo che i giudizi positivi (High Grade) sulla sostenibilità del nostro debito siano relativi a decenni fa stiamo commettendo un errore. Secondo Moody’s, fino al 2011, il debito italiano era Aa2, terza migliore valutazione tra le dieci che rientrano nell’investment grade. Per Fitch AA- (quarta nella scala dei giudizi) ed A+ per Standard & Poor’s. L’arrivo della crisi dell’euro e la sua fallimentare gestione ha aggravato in modo sostanziale la sostenibilità dei debiti pubblici di tutti i Paesi periferici. A motivare i continui downgrade che arrivarono tra la fine del 2011 ed il 2012 vi furono due componenti essenziali: l’incertezza nella capacità di azione a livello europeo per contenere il contagio e le difficoltà a livello nazionale di raggiungere gli obiettivi di consolidamento fiscale, dato l’effetto che queste manovre stavano producendo sull’andamento del Pil. Le agenzie di rating parvero sin da subito non credere alla famigerata “austerità espansiva” (fig.1).
Fig.1 Rating delle emissioni a lungo termine della Repubblica Italiana e Saldo primario strutturale di bilancio in punti di Prodotto Interno Lordo potenziale. Fonte dati: www.Moody’s.com; www.standardandpoors.com; https://www.fitchratings.com; AMECO.
Il consolidamento fiscale fatto in quegli anni si inserì in un’economia già provata dal deflusso di capitali e politica monetaria restrittiva (come non ricordare il doppio rialzo dei tassi della BCE durante il 2011?), e la recessione che ne conseguì generò quell’effetto snow-ball che solo tra il 2011 ed il 2013 ha influito per circa 15 punti di prodotto interno lordo sulla crescita del rapporto debito-Pil, lasciando in eredità un giudizio sulla sostenibilità del debito dell’Italia al limite dell’investment grade. Da allora infatti l’Italia è ancora di più un sorvegliato speciale ed errori di calcolo e previsione sulla dinamica dei conti pubblici possono essere pagati a caro prezzo.
Come abbiamo visto in un post precedente, la dinamica del debito dipende in buona sostanza (escludendo gli aggiustamenti stock-flussi) da tre principali variabili: il saldo primario del bilancio pubblico, il tasso di interesse implicito del debito e la crescita nominale del Pil. Quale di queste tre variabili preoccupa così tanto?
Se provassimo a far due conti ci renderemmo conto che il saldo primario di bilancio rimane positivo anche nel 2019 (+1,3%), in diminuzione rispetto a quello previsto per quest’anno, ma sostanzialmente uguale a quello del 2017, contribuendo così alla discesa del rapporto debito-Pil.
Per quanto riguarda il tasso implicito del debito, se venisse confermato lo scenario ipotizzato dal Governo (1,0% a breve termine, 3,3% a lungo termine), esso non si modificherebbe in modo sostanziale. Rimarrebbe in linea con il 2,7-2,8% previsto nel 2018 ed inferiore a quello del 2017.
A questo punto rimane da valutare la crescita nominale, ed è lì che si addensano le principali nubi.
Partendo già da una crescita di fondo dell’economia in sensibile diminuzione rispetto a quanto ipotizzato pochi mesi fa, il Governo inserisce una manovra che, per suoi stessi calcoli , si basa su moltiplicatori non così elevati. Sebbene raggiungere una determinata crescita sia un puzzle molto complicato da risolvere, e non esistono certo, per nessuno, bacchette magiche, concentrare le maggiori risorse su misure che lo stesso modello econometrico del Ministero identifica con un impatto limitato sulla crescita sembra proprio una scelta discutibile.
Discutibile come la stessa strategia di difesa della manovra seguita in queste settimane, con continue, più o meno ventilate, ipotesi di rottura con la Commissione Europea ed indicazione dei livelli di spread ai quali le banche rischiano di aver bisogno di nuovi capitali. Un mirino per poter essere impallinati.
Se le pressioni sullo spread fino ad oggi non si sono tradotte in un sensibile aumento dei costi di finanziamento delle imprese e famiglie (nonostante l’aumento registrato ad Agosto essi rimangono in linea con quelli di Aprile, inferiori rispetto allo scorso anno), non vi è dubbio che proseguendo su questa strada, esaurita la liquidità in eccesso nel sistema, essi inizieranno a salire in modo più deciso, influendo negativamente sulla crescita. Come ripetuto dal Ministro Tria recentemente, difficile pensare di andare avanti ancora per mesi se queste pressioni dovessero continuare o addirittura aumentare.
Il vero problema di questa manovra, al di là degli zero virgola in più o in meno, è che utilizza le risorse aggiuntive, che così care ci vengono fatte pagare, per destinarle in misure che hanno un impatto marginale sulla crescita. Se la crescita di fondo dell’economia dovesse peggiorare ulteriormente l’effetto snow-ball potrebbe annullare velocemente il contributo in diminuzione del rapporto debito – Pil che ancora il saldo primario assicura. Secondo le mie stime, il limite inferiore di crescita sotto il quale l’effetto snow-ball più che compensa quello del saldo primario è intorno il 2-2,2%.
Dato che la crescita nominale prevista dal Governo nel 2019 è il 3,1%, può sembrare che ci sia ancora un ampio margine di sicurezza. Però lo stato di incertezza che accompagna alcune variabili esogene fondamentali per la nostra economia quali il commercio estero ed il prezzo del petrolio, ed il rischio che prima o poi si manifesti un consistente aumento dei tassi d’interesse per imprese e famiglie, potrebbe far sì che tale margine di sicurezza non sia più così sufficiente.
Nella migliore delle ipotesi, risolto il teatrino con le istituzioni europee e ricomposte le tensioni sui tassi, la crescita aggiuntiva ci permetterà di navigare a vista, seguendo il trend raggiunto dai Governi precedenti. Nella peggiore delle ipotesi, se la crescita nominale dovesse scendere sotto il 2%, il debito-Pil tornerà così a salire, riaffermando le preoccupazioni dei mercati ed i giudizi negativi delle società di rating.
Ma questa volta, a differenza del 2011, avremo quasi esaurito le scale da poter scendere nei rating dell’investment grade e ci potremo trovare direttamente al junk, con tutte le conseguenze che tale passaggio comporta.
Twitter @francelenzi