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La grande e futile ossessione economica di Trump: il deficit commerciale
Esattamente due anni fa Donald Trump si apprestava ad entrare nel suo ultimo mese di campagna elettorale e a vincere, in modo sorprendente e spettacolare, le elezioni presidenziali statunitensi. Tra i suoi slogan politici preferiti, oltre al muro al confine con il Messico, alla riforma fiscale e alla revoca dell’Obamacare, Trump ha sempre sostenuto la convinzione che una delle priorità principali della sua amministrazione sarebbe stata quella di ridurre il deficit commerciale.
Al di là della retorica, nel corso di questi primi 20 mesi di presidenza, le politiche commerciali messe in atto dall’amministrazione Trump non hanno portato ad una riduzione del deficit commerciale. Questo può essere visto come un aspetto positivo. Infatti, senza troppi giri di parole, è giusto spiegare, come scrive Gregory Mankiw, famoso professore di economia ad Harvard, sul suo blog, che l’espressione “deficit commerciale” è un termine che mette in confusione i più. Come Trump, in molti associano questa espressione a qualcosa di negativo, mentre in realtà non dovrebbe essere così.
Nonostante i dazi sull’alluminio e sull’acciaio, la revisione del NAFTA (le trattative con Canada e Messico sono appena terminate), la guerra commerciale con la Cina (in questi ultimi mesi Washington e Pechino hanno applicato dazi incrociati su un totale di $360 miliardi di dollari), la revisione dell’accordo commerciale con la Corea del Sud (che prevede – tra le altre cose – il raddoppio dell’export di automobili statunitensi e, in linea di principio, un tetto massimo delle importazioni di acciaio dalla Corea), l’uscita di scena dal TPP e dal TTIP e il rinnovato interesse di nuovi accordi commerciali con Unione Europea e Giappone, il deficit commerciale americano è in aumento.
Come mostrano i dati più recenti del Dipartimento del commercio degli Stati Uniti, nel 2016, ultimo anno di amministrazione Obama, la bilancia commerciale (beni e servizi) ha fatto registrare un disavanzo pari a $502 miliardi di dollari. Nel 2017, primo anno di presidenza Trump, il deficit commerciale è risultato pari a oltre $552 miliardi di dollari. Il tanto odiato deficit commerciale ha fatto registrare un ulteriore aumento anche tra gennaio e luglio 2018. Se la media di questi primi sette mesi verrà confermata anche tra agosto e dicembre, a fine anno il deficit commerciale statunitense potrebbe raggiungere circa $580 miliardi di dollari.
Grafico 1: Deficit commerciale (beni e servizi) degli Stati Uniti dal 1992 al 2017 – Fonti: US Bureau of Economic Analysis e US Bureau of the Census
Se, invece, come preferisce fare Trump, si tiene in considerazione solo il deficit commerciale dei beni (escludendo i servizi, dove gli Stati Uniti vantano un surplus), nel 2017 la bilancia commerciale statunitense è risultata essere in rosso per circa $807 miliardi di dollari, in aumento di oltre 55 miliardi rispetto al 2016. Se i trend attuali verranno confermati anche nella seconda metà del 2018, alla fine di quest’anno il deficit commerciale delle merci potrebbe far registrare un nuovo record storico: oltre $850 miliardi di dollari.
Osservando l’intera bilancia commerciale (beni e servizi) in percentuale al Pil statunitense, si nota un leggero aumento tra il 2016 ed il 2017. Per il 2018 dovremo aspettare i dati di fine anno, ma se si osservano le stime attuali, il deficit commerciale dovrebbe raggiungere il 2,5% del Pil. Se si guarda, invece, all’intero conto delle partite correnti (di cui la bilancia commerciale è solo una parte), il Fondo Monetario Internazionale stima quest’ultimo in crescita, dal 2,4% al 3%. Insomma, nonostante il lieve aumento, niente di sconvolgente e niente di cui preoccuparsi per un Presidente che vuole difendere il benessere degli americani e per un’economia con un Pil nominale di oltre $21 trilioni di dollari.
Come spiegano molti economisti, il deficit di beni e servizi degli Stati Uniti ha poco a che fare con la politica commerciale intrapresa da Washington. In generale, il deficit commerciale di una nazione è, prima di tutto, determinato dai flussi di investimenti in entrata e in uscita dal quel paese. Questi flussi sono causati da quanto le persone di quella specifica nazione risparmiano e investono. Per comprendere come funziona la bilancia commerciale di una nazione bisogna, innanzitutto, capire cosa sia la bilancia dei pagamenti. Una volta compresi questi termini, si può arrivare a capire la seguente equazione: risparmi – investimenti = esportazioni – importazioni. Di conseguenza, le variabili macroeconomiche di risparmio e degli investimento sono influenzate solo indirettamente dalla politica commerciale di un determinato paese.
Fino ad oggi, la politica economica di Trump, si è principalmente caratterizzata per una manovra fiscale espansiva in deficit. Il deficit degli Stati Uniti è stato del 4,4% tra agosto 2017 ed agosto 2018. Questo è il livello più alto da maggio 2013. Stando ai dati a disposizione, il taglio delle tasse in deficit di $1,5 miliardi approvato dal Congresso e l’accordo biennale di finanziamento federale aumenteranno il deficit nei prossimi anni. Secondo quanto poi riporta la stessa amministrazione Trump, il deficit dovrebbe superare $1 trilione di dollari (ovvero il 5,1% del PIL) entro il 2020.
Questa manovra espansiva, oltre ad aumentare il debito, sta aumentando sia la crescita del Pil, sia le importazioni. Grazie al buon andamento dell’economia, i cittadini americani stanno acquistando più beni provenienti dall’estero. Oltre a questo, quando si parla di bilancia commerciale bisogna anche tenere in considerazione le politiche monetarie. Parlare di bilancia commerciale è dunque molto più complesso di quel che si pensi.
Infine, altre due brevi considerazioni riguardo l’inutile ossessione economica di Trump nei confronti del deficit commerciale. La prima riguarda l’idea sbagliata che il deficit commerciale riduca sia il lavoro, sia la ricchezza americana. Entrambe sono affermazioni sbagliate.
L’ultimo avanzo commerciale statunitense risale al 1976. Da quell’anno ad oggi, nonostante un deficit commerciale in costante aumento, il prodotto interno lordo pro-capite americano è cresciuto dell’1,8% (in linea con quanto avvenuto fin dalla seconda metà del 1800).
Grafico 2: Crescita del prodotto interno lordo pro-capite degli Stati Uniti tra il 1870 e il 2010 – Fonte: “Facts of Economic Growth” (Jones, 2015)
La disoccupazione invece è collegata al deficit commerciale solo indirettamente, attraverso la crescita generale dell’economia. Ad esempio, come riportano i dati del centro studi del Congresso americano, nel 2009, nel mezzo della crisi finanziaria globale, la crescita reale del Pil degli Stati Uniti è stata negativa (- 3%), il tasso di disoccupazione è salito a circa il 10% ed il deficit commerciale dei beni si è ridotto di circa il 40%, calando a $510 miliardi di dollari. Nel 2006, invece, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti scese a circa il 4%, mentre il Pil fece registrare una crescita del 2,7% su base annua e il deficit commerciale della merci raggiunse il suo attuale massimo storico di oltre $830 miliardi. Infine, nel corso di questi ultimi anni, il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti è continuato a calare mentre la crescita economica si è stabilizzata oltre il 2% ed il disavanzo commerciale delle merci non è mai sceso sotto i 750 miliardi di dollari.
L’ultima osservazione è la seguente: se Trump, come ha più volte, giustamente, ripetuto, ha come obiettivo finale quello di ridurre dazi, barriere e sussidi commerciali in tutto il mondo, per quale motivo non decide di promuovere una politica commerciale di apertura unilaterale, anziché continuare a parlare, erroneamente, di un problema (il deficit commerciale) di fatto inesistente?
Così come la riduzione delle imposte sulle imprese, è molto probabile che una mossa del genere possa innescare un processo positivo che porti anche altri paesi a seguire questa strada. Come anche Paul Krugman ricorda in un suo scritto del 1997, il caso economico per il libero scambio è anzitutto un caso unilaterale. Ciò significa, come racconta Frederic Bastiat nei suoi “Sofismi Economici”, che un paese dovrebbe abolire i dazi e le sue varie barriere commerciali indipendentemente da quello che le altre nazioni decidono di fare. Nel corso della storia abbiamo potuto conoscere due esempi di apertura unilaterale al commercio: l’Inghilterra di metà 1800 (dopo l’abolizione delle Corn Laws) e Hong Kong. Entrambi sono esempi di grande successo.
Twitter @cac_giovanni