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Il condono guarda al passato, la pace fiscale al futuro
L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, giudice onorario del Tribunale di Latina –
In attesa dell’ufficialità, è plausibile immaginare che all’interno della prima manovra economica del governo gialloverde ci sarà spazio per una definizione agevolata dei vecchi carichi fiscali. Già nel contratto di governo, prima ancora che l’esecutivo si insediasse, si paventava l’ipotesi concreta di una “pace fiscale”, da attuarsi unitamente ad una sostanziale riscrittura dei rapporti – oramai logori – tra fisco e cittadini.
I detrattori della misura, che è ancora in fieri e di cui non si conoscono esattamente i termini, sostengono che si tratti, in buona sostanza, di un nuovo condono fiscale, sulla scia dei precedenti già varati da altri governi e che il cambio nome sia soltanto un escamotage per non sporcarsi troppo le mani. Il condono, infatti, viene visto come un provvedimento a primario beneficio degli evasori che, negli anni addietro, si sono sottratti ai propri obblighi fiscali, vedendosi, oggi, quasi abbonare le loro condotte o comunque beneficiare di un grosso sconto.
Sentori che, almeno pare, stiano insediandosi nel pensiero di una parte della maggioranza, provocando l’effetto di una marcia indietro significativa sul punto.
A parere dello scrivente, questo dietrofront è generato da un equivoco di base, che consta nel confondere i due concetti di “condono fiscale” e “pace fiscale”, all’apparenza sovrapponibili, eppure profondamente diversi.
Un abbuono delle pendenze fiscali, ferme così restando le altre cose, sarebbe in effetti l’ennesimo condono, col beneficio di un rimpinguo momentaneo delle casse dello Stato e poco più. In altri termini, fare “soltanto” il condono, senza accompagnare l’intervento con una – necessaria – rivoluzione del sistema tributario e fiscale, rappresenterebbe una misura cieca, della quale possiamo fare anche a meno.
Diverso è, invece, il discorso, se la possibilità di definire le vecchie pendenze si accompagna ad una riprogettazione del rapporto tra erario e contribuente, da porsi come fondamenta su cui erigere un fisco nuovo, più “snello” e più “leggero” e, parallelamente, un contribuente più incline a rispettare le regole, pronto ad essere rigidamente punito se non le rispetta.
È questa la differenza, sostanziale e non soltanto terminologica, che distingue una pace fiscale da un semplice condono.
Il condono è una misura isolata, che consente di tirare un colpo di spugna sulle irregolarità commesse in passato e dargli una ripulita. È un tappabuchi, un modo di racimolare denari, con lo sguardo rivolto al passato.
Di contro, una definizione agevolata dei vecchi carichi inserita in un disegno complessivo, che guardi al futuro come ad una nuova era fiscale, in cui il cittadino abbia la possibilità di adempiere alle proprie obbligazioni con chiarezza e con una minore e sopportabile pressione, comincia ad avere un senso: ed ha senso non soltanto chiamarla, ma anche e soprattutto concepirla come una vera e propria pace fiscale.
In altri termini, la pace fiscale è, in analogia alle premesse del contratto di governo, una riscrittura del rapporto tra fisco e cittadino, con regole semplici (e possibili) da rispettare e punizioni rigide in caso di violazioni. E ciò, ovviamente, non può prescindere dal concedere al contribuente una possibilità di chiusura delle pendenze precedenti, partorite da un sistema disfunzionante.
Del resto, quando si intende cambiare radicalmente le regole del gioco, ritenendole in un certo senso “sbagliate”, è indispensabile prevedere una modalità di regolarizzazione di quei carichi che si sono determinati proprio in virtù e in vigenza delle vecchie regole.
Il concetto si può comprendere facendo un parallelismo con un’altra misura legata all’evasione fiscale, ovvero le restrizioni sulla possibilità di utilizzo del denaro contante, con abbassamento delle soglie consentite (riportate a 3.000 euro, dopo la stretta a 1.000 di qualche anno fa).
È fuor di dubbio che un intervento del genere disincentiva il “nero” ed agevola i controlli degli agenti del fisco. Al contempo, tuttavia, bisogna fare i conti con le abitudini di un popolo molto avvezzo all’utilizzo del denaro contante, anche a scopo di risparmio. Si pensi, ad esempio, al pensionato che ogni mese aspetta l’accredito della pensione per andare a ritirare il contante, sia per utilizzarlo, sia per metterne da parte le eccedenze (il c.d. accumulo sotto il mattone).
In questo senso, una stretta all’utilizzo del contante deve essere accompagnata da una misura di regolarizzazione dello stesso, con possibilità di inserimento nel sistema bancario senza troppi timori, magari pagando una tassa forfettaria. Altrimenti, la misura porta soltanto effetti restrittivi e di compressione dei consumi e degli investimenti.
Parallelamente, nuove regole fiscali e nuovi comportamenti da parte degli agenti in campo (fisco e contribuente) devono essere preceduti da un reset del sistema, con definizione agevolata dei carichi passati.
Il condono finisce nel momento in cui si perfeziona e i suoi benefici si esauriscono in un aumento di gettito una tantum. Di un condono, che sa di passato, non abbiamo bisogno.
Di una pace fiscale, capace di spalmare i suoi effetti nel tempo e proiettare il Paese verso il futuro. Di questo abbiamo bisogno.