Cosa è andato storto in Europa? Trent’anni dopo, rileggiamo il discorso di Bruges

scritto da il 20 Settembre 2018

L’autore di questo post è Luca Bellardini, dottorando di ricerca in Management ­(indirizzo Banking & Finance) presso l’Università Tor Vergata –

Riflettere sugli ultimi trent’anni di integrazione europea non può essere «un’arida cronaca di fatti oscuri nelle polverose biblioteche della storia», per citare il discorso che il 20 settembre 1988 Margaret Thatcher pronunciò a Bruges, nella sede del Collegio d’Europa. Da allora, una pletora di riforme ha cambiato in maniera significativa il volto della Comunità economica europea (Cee), che all’epoca si muoveva dalle buone intenzioni dell’Atto unico (1985) ai principii scolpiti nella pietra col trattato di Maastricht (1992). Qualcuno parla di «alluvione legislativa», e almeno in ambito finanziario è difficile dargli torto. Senza pensare agli effetti della stessa Brexit, il cui significato è quanto mai incerto: Londra è l’hub finanziario del Vecchio Continente (lo si deve anche e soprattutto alla stessa Thatcher, fautrice del Big Bang di liberalizzazione nel 1986) e ha spesso preso le distanze dall’interventismo economico dell’Ue, manifestato sull’onda della crisi finanziaria.

In questi giorni, peraltro, lo scontro con Bruxelles non si limita ai contenuti dell’accordo sul “divorzio”. C’è anche la questione dell’imposta sul valore aggiunto in numerose transazioni finanziarie: originariamente si applicava solo ai contratti in commodities scambiati su mercati dedicati, mentre oggi l’Ue rimprovera al Regno Unito un’interpretazione troppo estensiva. Se nulla cambiasse prima che l’exit diventi efficace, il Mercato unico – da cui Londra sembra voler uscire – si troverebbe a fronteggiare un’aperta concorrenza in situazione di svantaggio competitivo. In generale, però, non è affatto sicuro che – una volta riacquistata piena autonomia nel legiferare – l’ordinamento britannico sarà più investor-friendly di quello europeo. Le spinte per un approccio restrittivo non sembrano aver mai perso vigore da quando, dieci anni fa, il fallimento di Lehman Brothers instillò mille dubbi sulla tenuta del sistema.

Per superarli, una rilettura del «discorso di Bruges» è decisamente consigliata: non prima, però, di aver ripercorso gli ultimi sviluppi dell’integrazione economica. Una volta creata la moneta unica e istituito il Sistema europeo delle banche centrali con la Bce al vertice (1999), seguì una fase in cui vennero posate le “pietre angolari” dell’edificio. Al 2001 risalgono la Prospectus Directive sull’ammissione degli strumenti finanziari e, soprattutto, l’architettura di vigilanza ispirata dal rapporto Lamfalussy; nel 2004 fu approvata la prima Mifid.

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La fase successiva ha invece visto un completo cambio di paradigma. Innanzitutto, per quanto attiene alla supervisione del sistema finanziario, la trasformazione dei «comitati» in «autorità» micro-prudenziali (Eba, Esma, Eiopa), unita alla creazione di un ente macro-prudenziale europeo (Esrb) dedicato alla mitigazione del rischio sistemico, ha rappresentato un deciso spostamento delle funzioni regolatorie essenziali dalle istituzioni politiche – il Parlamento e il Consiglio dei ministri, che intervengono nell’iter di regolamenti e direttive – a organismi dal profilo puramente tecnico. Se da un lato questo è un bene – almeno in linea teorica – per l’autonomia e la competenza degli enti deputati al controllo, dall’altro fa proliferare le norme a presidio del settore: disposizioni di rango diverso finiranno inevitabilmente per sovrapporsi. Negli ultimi anni, purtroppo, il secondo effetto è stato prevalente. Talvolta, come nel caso del pacchetto sui requisiti patrimoniali delle banche (direttiva Crd IV e regolamento Crr), Bruxelles ha addirittura recepito norme di soft law emanate da altri organismi internazionali (nello specifico, il Comitato di Basilea). Qualcosa, insomma, sembra essere andato fuori controllo.

Trent’anni dopo il discorso di Bruges, non è questa l’Europa immaginata da Margaret Thatcher. Lei, però, si opponeva all’unione politica: temeva che avrebbe annullato le specificità nazionali in un superstato invasivo. Come ricordò il primo ministro in quell’occasione, il Regno Unito aveva prosperato da solo, ma grazie al suo cosmopolitismo; aveva sempre contribuito all’identità europea, ricevendo comunque beneficii dall’interazione con gli altri Stati nazionali; e, soprattutto, combatteva una battaglia culturale in favore del capitalismo. «Incoraggiare l’impresa», disse la Thatcher, era dunque la chiave per il successo della Comunità. La ricetta giusta era quella degli shock in ambito regolatorio: sia internamente agli Stati membri, sia nel recinto di quel Mercato unico che sarebbe nato di lì a poco, sia verso l’esterno con la promozione del libero scambio.

Traducendo questi obiettivi in termini di politiche macro-finanziarie, la Lady di Ferro individuò quattro direttrici: dare seguito all’impegno della Cee per la libera circolazione dei capitali; abolire ogni controllo sui cambi; liberalizzare pienamente il mercato dei servizi bancari, assicurativi, d’investimento; e «fare maggior uso dell’Ecu».

Se guardiamo al presente, il quarto obiettivo – tradottosi nella definitiva adozione dell’euro – ha inglobato il secondo, perché nell’Eurozona il concetto di cambio è venuto meno e le valute ufficiali degli altri Paesi Ue non sono vincolate alla parità con la moneta unica. Lo stato dell’arte del primo e del terzo obiettivo, invece, è molto più discutibile. La Corte di giustizia dell’Ue è oggi inondata da cause che contestano a Bruxelles la violazione del principio di libera circolazione dei capitali, perlopiù in ambito assicurativo: la recente Insurance Distribution Directive, simile a Mifid II, non sembra il mezzo ideale per invertire la tendenza. La creazione di un autentico level playing field nel settore finanziario è ancora ben lungi dall’essere raggiunta, come il legislatore della Mifid II ammetteva candidamente nei «considerando». In quanto ad armonizzazione, le due direttive in questione – e, ancor più segnatamente, il regolamento Mifir – compiono un intervento formalmente massiccio, la cui efficacia è però tutta da dimostrare.
Se poi volgessimo lo sguardo alla finanza pubblica, troveremmo che diversi Paesi hanno disatteso gli impegni assunti a Maastricht da grandi civil servants (come Guido Carli per l’Italia).

All’inizio degli anni Novanta, caduto il comunismo e all’apice della trasformazione tecnologica, la civiltà europea sembrava avere praterie sconfinate innanzi a sé. Era questo, in fondo, anche lo spirito di Bruges (a guerra fredda non ancora esaurita). Eppure, non tutti hanno fatto i compiti a casa nel quindicennio fra il trattato di Maastricht e la deflagrazione della crisi, per quanto la concatenazione delle crisi bancarie e del debito sovrano sembri ormai alle spalle. Mentre la Thatcher e gli “eurocrati” suoi avversari esprimevano una visione chiara e coerente, capace di guardare trent’anni avanti, oggi il Regno Unito – che non ha ancora idea di cosa sarà dopo la Brexit – può al massimo guardarsi indietro. Vi troverà gli insegnamenti autorevoli di una donna che, pur essendo vista come un alfiere dell’euroscetticismo, alla fine propugnava cose molto semplici: tradizioni culturali, non istituzioni politiche; libero mercato, non burocrazia e interventismo regolatorio; concorrenza, non monopoli; opportunità, non assistenzialismo. In un’espressione sola: l’Europa dei lumi, faticosamente conquistati nel corso dei secoli. Anche senza i trattati, così affascinanti e così spesso disattesi.

Twitter @Luca_Bellardini