La povertà è un equivoco della democrazia?

scritto da il 19 Settembre 2018

Gli artisti dell’inganno amano giocare sulla tetraggine del mondo del lavoro… Le loro truffe possono avere come oggetto, ad esempio, il recupero di un tesoro… Da lontano tutto può apparire allettante e carico di promesse, semplice e senza problemi. Ciò che offrono, quindi, appare inafferrabile. I manipolatori di fantasie, lasciano che la vittima si avvicini a sufficienza per per vedere ed essere tentata, ma mai abbastanza da smettere di desiderare e di sognare. La verità, al contrario, è fredda, sobria… Grande potere deriva dalla capacità di solleticare la fantasia delle masse. Chi si applica alla verità o alla realtà si prepara ad affrontare l’ira del disincanto.

GREENE, R., ELFFERS, J., 1998, Le 48 leggi del potere

Correva l’anno 1994, quando Carmelo Bene, che di certo non ha bisogno di presentazioni, con imperscrutabile baldanza, intronava il Parioli dicendo “Io me ne fotto del Ruanda”. L’occasione era quella del Costanzo Show e il format quello dell’uno contro tutti. Numerosi giornalisti schierati in platea interpellavano la controversa figura dell’attore-regista e mostravano ritmicamente indignazione e disgusto a ogni sua provocazione. Maurizio Costanzo, imperturbabile, faceva solo da moderatore. A rivederne il filmato, sembra di assistere a una scena nella scena, cioè a una perfetta divisione dei ruoli: da una parte, i giornalisti, capaci di grande e raffinata sensibilità, dall’altra, un uomo incapace di piegarsi a qualsiasi sillogismo socio-morale. In realtà, quale delle due parti merita il nostro credito? In altri termini, c’interessa davvero la sorte dei bambini africani e, più in generale, dei veri poveri del mondo? Molto di frequente, si vedono scorrere sui social foto di bambini ruandesi, somali e, in generale, dell’Africa nera. Nessuno può dichiararsi insensibile, tutti sono pronti a metterci del proprio per salvare l’umanità. È possibile, infatti, che le colonne di traffico delle nostre città siano fatte di automobilisti diretti all’aeroporto, da dove prenderanno il volo per Kigali o per Mogadiscio. Purtroppo, qui si corre il rischio di una contraddizione imbarazzante. Se al risveglio, il nostro primo pensiero è un caffè seguito dal cornetto, come possiamo dirci contrari alla provocazione di Carmelo Bene?

La povertà nel mondo non appartiene al pensiero o alla sensibilità degli uomini che ne parlano; la povertà non deve essere pensata; diversamente, dev’essere esperita come compartecipazione e bisogno perché a essa si contrapponga la dignità dell’esistenza. Che dire di un ragazzo che cresce desiderando tutto ciò che amici e compagni possiedono? È o non è un povero? Di certo, lo è chi soffre di denutrizione. E come giudichiamo un padre di famiglia che si ‘spacca la schiena’ dalla mattina alla sera per guadagnare un modesto salario (…ipotizziamo € 1.200,00 circa) col quale è costretto a mantenere una famiglia (affitto, spesa alimentare, almeno un’autovettura, scuola per i figli et cetera)?

Una risposta a questi interrogativi, quantunque parziale, come tante altre in materia di povertà, proviene dall’Ufficio Statistico della Commissione Europea (EUROSTAT), secondo i cui criteri è povero non solo chi ha un reddito pari o inferiore al 60% della media, ma anche chi non riesce a soddisfare almeno quattro delle seguenti condizioni di armoniosa sopravvivenza: pagamento dell’affitto o della rata del mutuo, delle bollette di luce e gas, copertura di spese impreviste, acquisto di cibi proteici ogni due giorni, godimento di una settimana di vacanza l’anno, possesso regolare di una macchina, di un televisore e un telefono.

Insomma, si tratta di una povertà relativa, anche se dev’essere chiaro che la misurazione della povertà e l’adozione dei criteri di misurazione hanno sempre creato non pochi problemi agli studiosi, fin dai primi lavori di pertinenza (…tra gli altri: EDEN, F., M., 1797, The State of the Poor). In modo alquanto sbrigativo, si potrebbe definire ridicola questa problematicità e concludere dicendo che, se uno è povero, è povero, non c’è mica bisogno di girarci attorno.

Invece, le cose non stanno affatto così. Già nel XIX secolo, lo statistico Ernst Engel dimostrava che, a ogni fase di crescita economica, si documenta una riduzione della spesa in cibo; la qual cosa sta a significare, com’è stato successivamente e ampiamente confermato, che le persone, oggi, sono disposte a rinunciare a un’alimentazione di qualità, pur di avere un discreto smartphone. E non è tutto: da stime del 2017, fatte da facile.it e prestiti.it, s’è accertato che gli italiani, nel 2017, si sono indebitati per quasi 100 milioni di euro al solo scopo di andare in vacanza. Non è difficile capire, a questo punto, che la relatività del giudizio cresce e genera una certa confusione o, per lo meno, un po’ d’imbarazzo, tant’è che Simon Kuznets, Nobel per l’economia nel 1971, è riuscito a dimostrare come ogni importante cambiamento socio-economico determina un aumento delle diseguaglianze. Una certa parte della popolazione, infatti, non è in grado di adattarsi subito e facilmente.

In una forma preliminare, possiamo riformulare la questione diversamente: c’è ragione di credere che esista un’ampia fascia sociale a rischio povertà e troppo sensibile alle oscillazioni dell’economia, la quale fascia dovrebbe indubbiamente essere, più che assistita, educata dallo Stato alla gestione dell’economia essenziale.

Negli anni che hanno preceduto la rinomata ‘crisi Lehman’, in Spagna, per esempio, s’è registrato il boom dei mutui ‘senza coperture’. Ed è risaputo che negli Stati Uniti si concedevano mutui senza neppure un equilibrio nel rapporto rata-reddito. Di conseguenza, i dati che più dovrebbero interessarci ci rimandano alla Banca Mondiale, secondo cui più di 700 milioni di persone al mondo sono in stato di povertà assoluta, vale a dire quasi il 10% della popolazione mondiale, che vive con meno di due dollari al giorno ed è schiacciato dall’assenza di soluzioni e di relazioni dirette con la società. Occorre considerare, nello stesso tempo, che la somma di 1,90 dollari è anch’essa relativa, dal momento che ci sono persone che sono costrette a vivere con molto meno.

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La regione che vanta il triste primato della povertà al mondo è quella subsahariana, dove si concentra il 42,7% dei poveri del mondo, mentre il più povero dei paesi è Haiti, l’80% dei cui abitati vive con una somma giornaliera addirittura inferiore a quella indicata dalla Banca Mondiale. In Italia, la situazione è più scoraggiante e preoccupante di quanto si possa immaginare: secondo l’ISTAT, i nostri poveri sono 4 milioni 742mila. A tal proposito, riportiamo direttamente un frammento del report sulla povertà pubblicato dall’Istituto Nazionale di Statistica: “Nel 2016, l’incidenza della povertà assoluta sale al 26,8% dal 18,3% del 2015 tra le famiglie con tre o più figli minori, coinvolgendo nell’ultimo anno 137mila 771 famiglie e 814mila 402 individui; aumenta anche fra i minori, da 10,9% a 12,5% (1 milione e 292mila nel 2016)”.

Le misure preventive o di contrasto sono sempre state numerose, tanto più che nell’ultimo decennio più di duecento milioni di persone sono riuscite a uscire dallo stato di ‘bisogno estremo’, tuttavia basterebbe viaggiare un po’ e non limitarsi a riempirsi gli occhi di monumenti e quadri per rendersi conto, per esempio, che, a Casablanca, a pochi passi dalla maestosa moschea di Hassan II e dai lussuosi locali notturni, le baracche sono innumerabili e i bambini giocano a calcio sulle pietre acuminate, ma senza scarpe; a Mosca, i residui edilizi delle Kommunalki o delle Chruscevskij alloggiano persone che vanno avanti per inerzia, ma che restano occultate dallo splendore di San Basilio, a New York; il Bronx dista solo mezz’ora scarsa d’auto da Wall Street.

La verità è difficile ad accettarsi, ma è inevitabile: lo sviluppo economico e l’evoluzione democratica portano con sé materialmente vincitori e vinti: l’homo democraticus del post-1989 non è più costretto a misurarsi con degli schieramenti o dei modi d’agire e pensare, ma unicamente con sé stesso, con la propria libertà di raggiungere un obiettivo o meno, nel rispetto della legge o meno e consapevole delle conseguenze, perché il mondo non è più lontano e le sue forme sono diventate opportunità.

Lo Stato, a propria volta, proprio in nome di questo trionfo democratico, non può più intervenire a creare limitazioni del successo o del profitto del singolo individuo a scopo di redistribuzione perché violerebbe i fondamenti stessi della democrazia. Non si dimentichi che la povertà ‘conclamata’, nella sostanza e non a caso, è figlia delle rivoluzioni industriali! In quanto alle misure redistributive che uno Stato potrebbe adottare, è quanto mai opportuno richiamare alla memoria le idee di Vilfredo Pareto, un docente di economia politica secondo il quale ogni intervento in tale direzione può essere fatto se e solo se non si indebolisce alcuna categoria. Non si può pensare infatti a un livellamento delle risorse perché ciò comporterebbe anche un livellamento della produzione e la distruzione dei fondamenti economici di una società democratica. Presupponendo che il cittadino benestante abbia raggiunto un certo status di benessere in modo onesto e legale, come può uno Stato attaccare il suo patrimonio con un’imposta al solo scopo di redistribuire? In altri termini: come può uno Stato privare un qualsivoglia cittadino di parte di ciò che egli s’è conquistato meritatamente? Le implicazioni sarebbero gravi, morbose e irreversibili. La democrazia contiene degli equivoci.

Purtroppo, il problema della povertà non è mai stato gestito in modo adeguato soprattutto perché la visione che se n’è avuta e se ne ha è un po’ accademica e, per certi aspetti, snobistica. Se si considera che il filosofo più utilizzato dalle sinistre mondiali sulla via del riscatto dei lavoratori è stato il più grande bluff della storia del pensiero economico, allora, forse, si può cominciare a capire che cosa è stato imposto alla gente. Karl Marx ha fatto molto rumore su proletariato e plusvalore, ‘minacciando’ la redistribuzione aziendale di quest’ultimo, ma ha espresso autentico disprezzo nei confronti degli emarginati e dei disoccupati, cioè di coloro, che, stando ai margini della società e della vita, non erano in grado di produrre. Di conseguenza, chi, tutt’oggi, si riempie la bocca di marxismo, dovrebbe ricordare come nascono i regimi di capitalismo occulto, cioè le oligarchie, e quanto male hanno fatto a chi aveva semplicemente bisogno di mangiare. Quella prevista da Marx, non a caso, era una società fatta di divieti e limitazioni del profitto. Non sembra casuale, rebus sic stantibus, che il teorico eponimo delle rivoluzioni socialdemocratiche sia nato in una famiglia piuttosto abbiente e non abbia mai patito la fame.

C’è da notare, tra le altre cose, il più importante degli aspetti socio-politici della figura di Marx: non ci sembra che sia mai sceso per le strade a combattere; tuttavia, sulla scia dei suoi insegnamenti, interpretati più o meno correttamente, qualche goccia di sangue s’è versata. Karl Marx era figlio di Heinrich Marx, avvocato, rifugiatosi presso la Chiesa luterana con un’abile e conveniente conversione ad onta delle origini ebraiche, e di Henriette Pressburg, zia dei fondatori della Philips, Anton e Gerard Philips. A questo si aggiunga che il ‘borghese’ Karl sposò la figlia del barone Ludwig von Westphalen. È verosimile che egli non abbia mai corso il rischio di alienazione e si sia emancipato piuttosto in fretta, a differenza di quanto accade a un operaio medio. Bisognerebbe capire se la famiglia Marx abbia anche provveduto alla soppressione della proprietà privata, ma questo diventerebbe sarcasmo mediocre…

Purtroppo, Marx morì appena un anno prima della nascita di Corrado Gini, un economista che avrebbe potuto insegnargli molte cose e, in particolare, un metodo di misurazione delle diseguaglianze: il coefficiente che prende il nome dallo studioso italiano varia da 0, che corrisponde al livello di equa distribuzione del reddito, a 1, che invece corrisponde alla massima diseguaglianza. Ciò significa che una vera misurazione delle condizioni socio-economiche non può prescindere da alcune categorie, come, al contrario, si evinceva dalle ‘religiose’ scritture del barbuto filosofo di Treviri, che condannò all’esclusione il lumpenproletariat, ossia il sottoproletariato.

Torniamo in Italia e concludiamo ancora una volta con una riflessione sulla sensibilità collettiva. Intorno alla metà di dicembre del 2014, la RAI, com’è noto, ha dedicato ampio spazio a uno spettacolo di Benigni sui dieci comandamenti. Fin qui, tutto in regola. D’altronde, con Benigni gli ascolti sono garantiti: 9 milioni di spettatori si traducono in uno share di tutto rispetto. Il culmine di questo successo, per cui varrebbe la pena, a detta di alcuni, pure di pagare il canone, coincide, invece, dal nostro punto di vista, col culmine della stupidità collettiva, con un quiproquò sconcertante e contagioso, con una botta di smarrimento narcotico grazie al quale il destinatario del messaggio finisce con l’approvare ciò che, di norma, combatterebbe aspramente.

Roberto Benigni inneggia alla felicità. È scandaloso, nauseante, angosciante, ma gli ascoltatori sono estasiati, rapiti, incantati e, forse, davvero felici. In fondo, ha ragione Benigni, basta poco; basta cercare la felicità per afferrarne una porzione. Se queste stesse cose fossero state dette da un Presidente del Consiglio, da un Gentiloni o un Renzi, che cosa sarebbe successo? Come dice Benigni, molti di noi hanno nascosto la felicità talmente bene da non ricordarsi il nascondiglio, come fanno i cani con l’osso. Il comico toscano – questa volta, esageratamente comico o tragico – ci suggerisce di cercare dappertutto.

Vogliamo immaginare che gli oltre 4 milioni di poveri si siano dati da fare in casa, ma non l’abbiano trovata. Forse sono usciti, ma neanche nei dintorni di casa hanno trovato qualcosa di simile alla felicità. Avrebbero potuto prendere l’autovettura per spingersi oltre sempre alla ricerca della felicità, ma, non avendo pagato l’assicurazione o non possedendo un’automobile, hanno pensato che fosse opportuno evitare. Avrebbero avuto l’attenuante della ricerca della felicità, qualora la polizia stradale li avesse fermati, ma, a vivere di attenuanti, prima o poi, ci si becca l’ergastolo, che non è una bella forma di felicità. Con un cachet come quello che ha ricevuto Benigni, chiunque sarebbe stato felice di dire ‘siate felici’. Perché nessuno s’è detto indignato per le parole di Benigni? Di fatto, ha guadagnato più di quanto guadagna un Primo Ministro, ha avuto meno responsabilità, il cachet gli è stato pagato sempre col denaro dei contribuenti e se l’è cavata con molto poco.

C’è – dappertutto, intendiamoci! – una componente d’ipersensibilità, cui si contrappone la scarsa resistenza alla durata dei processi d’apprendimento: esattamente ciò che si verifica quando si abbandona un libro alle prime difficoltà di comprensione. I bei libri esposti sulle scansie sono sufficienti ad accreditare il proprietario quale intellettuale o lettore attento? Su questo binomio di ipersensibilità e pigrizia giocano gli strateghi dell’informazione, della comunicazione e del linguaggio, nell’accingersi ad elaborare la notizia da servire ai fruitori.

Roberto Benigni, solenne e chiassoso, esuberante e fantasioso, recita a proposito di questa felicità: “Ce l’hanno data quando eravamo piccoli, ma l’abbiamo nascosta, come fa il cane con l’osso e non ci ricordiamo più dov’è. Cercatela, guardate nei ripostigli, nei cassetti!”. 9 Milioni di persone in Italia hanno davvero bisogno di questa iperbole smodata, noiosa ed irriverente? Il ricorso ai bambini e alla fase aurea del nostro sviluppo è una mossa da furfanti navigati: bisogna ammetterlo; cattura l’attenzione traboccando d’enfasi ed emotività per poi esplodere nella similitudine semplice del cane che nasconde l’osso. La retorica – si badi! –, sia nella forma scritta sia in quella orale, è un’arte che può rivelarsi beffarda, derisoria, oltraggiosa e maligna, se adottata unicamente agli effetti della seduzione d’un interlocutore ignaro e inebetito da ammirazione e adulazione. Per di più: il contesto in cui essa è realizzata e il personaggio che ne fa uso completano la messa in scena, tant’è che i politici sono condannati per lo stesso motivo per cui Roberto Benigni è acclamato. La vacuità e le illusioni costituiscono un terreno fertile per i comportamenti umani perché agevolano l’aggregazione eliminando le barriere della cognizione, dell’istruzione e della cultura.

Se si vuole davvero capire il fenomeno della povertà e della sua definizione reale, si studino, per esempio, i lavori di Amartya Sen, secondo il quale la povertà ha inizio nella privazione di libertà, e non ci si lasci confondere dall’accapponarsi della pelle: dura poco e non ha significato!

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