categoria: Vicolo corto
Il merito, dove esiste, è l’unica via seria per la mobilità sociale
Il merito in Italia non è mai esistito, se non in alcuni settori, aperti alla concorrenza internazionale. Alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 si è creata una frattura, una forte discontinuità. È nato un nuovo dualismo. Oltre alle diadi Nord-Sud, lavoro protetto e lavoro precario, sono nate le imprese globali, quelle che poi sono state definite le “multinazionali tascabili”, mentre molte imprese hanno mantenuto un approccio domestico.
Per le seconde, quando il ciclo economico italiano si è fatto cruento – vedi recessione settennale 2009-2016 – le conseguenze sono state durissime.
In un contesto siffatto, chi vive di protezioni domestiche, può aumentare gli stipendi senza interessarsi della produttività, può assumere o promuovere dei buoni a nulla, tanto il mercato non fa pagare dazio.
Nel mondo aperto alla concorrenza internazionale il merito è una condizione di sopravvivenza.
A livello di individui, le nuove tecnologie e la globalizzazione hanno consentito ai più bravi e meritevoli di affermarsi, di cambiare lavoro, di andare all’estero ed essere pienamente valorizzati, di pretendere stipendi più alti. Da qui la drammatica divaricazione del reddito tra chi ha strumenti cognitivi e chi ha smesso di studiare finita la scuola media o superiore (non sufficiente per affermarsi nel mondo di oggi). La disuguaglianza agli occhi del cittadino medio si è fatta intollerabile (“Uno vale uno” è la più grossa caxxata sentita negli ultimi anni, sì, come no, il cervello di Mario Draghi vale quello di Mario Balotelli). Ma, a mio modo di vedere, è solo la conseguenza di un’esplosione di meritocrazia, che ha sempre fatto fatica ad affermarsi in questa Italia levantina, relazionale e manigolda (e invidiosa di chi legittimamente ha successo).
In un intervento sul n. 139 di Formiche, Giorgio Neglia, consigliere del Forum della Meritocrazia, ha rilevato come il Meritometro – primo indicatore di sintesi e misurazione dello “stato del merito” consenta di verificare il posizionamento in Europa. Lo strumento ha sette pilastri: libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per talenti, regole, trasparenza, mobilità sociale.
Il ranking 2018 fotografa un’Europa a tre velocità: i Paesi scandinavi restano i best in class, segue il blocco dei Paesi virtuosi (Olanda, Germania, Gran Bretagna, Austria e Francia). Nella parte bassa della classifica si trovano i Paesi “in deficit di meritocrazia” Polonia, Spagna e Italia (ultima in classifica). Neglia sottolinea che il principale trend negativo riguarda l’andamento della qualità del sistema educativo, che mina alla radice le potenzialità di lungo termine del nostro Paese.
Qualche giorno fa l’Ocse ha pubblicato il rapporto “Education at a glance 2018” sullo stato dei sistemi educativi in Europa. L’economista dell’Ocse, tra gli autori del rapporto, Francesco Avvisati, ha rilevato che “nelle carriere dei giovani l’origine sociale incide sia a monte dell’ingresso della scuola dell’obbligo che a valle, nelle scelte successive di studio…Quello dell’Italia, è un sistema che ‘asseconda’ le differenze sociali più che correggerle. Quindi le disparità di origine tendono a riprodursi passando attraverso il sistema scolastico e si traducono in una scarsa mobilità sociale”. Se una delle missioni della scuola è quella di ridurre le situazioni di partenza legate all’origine familiare, in Italia siamo all’anno zero.
Fosse vivo Luigi Einaudi sarebbe disperato, visto la sua infervorata battaglia sulla parità delle condizioni di partenza (invito a ri-leggersi “Lezione di politica sociale”, sunto delle sue lezioni in Svizzera durante l’esilio 1943-45). In Italia solo il 9% dei 25-64enni con un genitore senza un titolo di scuola superiore è approdato in un ateneo contro una media Ocse del 21%. La percentuale sale al 59% se almeno un genitore ha un diploma di scuola superiore (Ocse 42%) e all’87% tra coloro con almeno un genitore laureato (Ocse 68%). Inoltre, l’81% degli adulti con genitori senza un’istruzione secondaria superiore ha terminato gli studi allo stesso livello di istruzione (Ocse 37%) e questo significa che solo il 19% è riuscito a raggiungere un livello d’istruzione più elevato rispetto ai propri genitori.
Cari lettori, non smettete mai di studiare, ne va del vostro futuro. Non devono studiare solo gli studenti, ognuno di noi deve farlo tutti i santi giorni. Si è studenti fino all’ultimo giorno di vita. Solo così si migliora la competitività di un Paese, avverso storicamente alla cultura del merito. E chi ce la fa, per favore, venga considerato bravo, non il centro dell’accanimento del rancore sociale, frutto anche di ignoranza e mancanza di approfondimento.
Il compianto Carlo Azeglio Ciampi, uomo-istituzione (Pierluigi Ciocca, cit.), non a caso, nel raccontare la sua vita di studente alla Normale di Pisa, disse che “studiava come un forsennato”. E non ha mai smesso. Prima di addormentarsi, a 90 anni suonati, leggeva “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” di Giacomo Leopardi.
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