categoria: Res Publica
L’incredibile ritorno in auge del settore pubblico: dobbiamo crederci davvero?
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
All’improvviso il settore pubblico sembra essere tornato di moda: da negletto e denigrato per decenni, ci viene oggi riproposto come panacea del mercato. Così assistiamo stupiti al rilancio di idee che fino poco tempo fa sarebbero sembrate assurde: dal mantenimento del controllo pubblico di Montepaschi, Alitalia e forse anche Ilva, alla nazionalizzazione di Autostrade.
Strano a dirsi, tutte le cure del nostro mercato malato – o “d’azzardo” come lo definì Guido Rossi – si troverebbero proprio nel nostro settore pubblico, uno dei più screditati al mondo: come ha fatto a riconquistare la credibilità perduta quando non ce l’han fatta paesi ritenuti ben più affidabili del nostro? I critici del governo sostengono che le idee dei suoi rappresentanti confermino per l’appunto la loro inadeguatezza a guidare il paese; i suoi sostenitori ritengono invece che la loro estraneità al vecchio establishment sia la garanzia di una vera svolta: “questa volta è diverso” sembrano volerci dire, come il titolo di un noto libro di Reinhart e Rogoff; che però dimostra come negli ultimi otto secoli questa credenza abbia agevolato, più che prevenuto, le crisi sistemiche.
D’altronde il dibattito sui meriti delle imprese pubbliche sembrava ormai sepolto dal crollo del muro di Berlino, che fu solo il culmine del collasso dei regimi comunisti. Né si può dire che il socialismo europeo abbia avuto sorti migliori, al punto da aver ispirato il famoso e fortunato slogan “Labour isn’t working”, che consentì al partito ultraconservatore di Margaret Thatcher di guidare il Regno Unito per oltre un decennio, per poi influenzare la politica economica europea fino ai nostri giorni. Fu così, tra l’altro, che gli aiuti di stato alle imprese diventarono lo stigma della (forse) più grave violazione delle regole europee da parte di uno stato membro.
In realtà le prime inefficienze del settore pubblico emersero più di tre secoli prima, con l’emanazione degli Enclosure Acts, che abolirono progressivamente la proprietà pubblica dei terreni intorno alle città inglesi, causando un balzo della produzione agricola così straordinario da aver reso l’espressione inglese “tragedy of the commons” un mantra di tutti gli economisti.
Alla luce di prove e controprove così numerose, chiare e prolungate nel tempo, perché ancora oggi e proprio in Italia l’intervento pubblico nella gestione delle imprese dovrebbe “essere diverso”?
È vero che la gestione privata di alcune importanti imprese del nostro paese si è rivelata fallimentare; ma molti sosterrebbero che il fallimento delle imprese “cattive” altro non sia che la conseguenza necessaria e auspicabile della selezione del mercato: come farebbero altrimenti le imprese “buone” a prosperare, forzando le altre a competere ed essere più efficienti o soccombere alla loro “distruzione creatrice”? In fondo le imprese pubbliche tendono a essere gestite male anche perché non rischiano (legalmente o praticamente) di fallire.
Qualcuno obietterebbe che queste valutazioni non tengono conto dei rischi sistemici che derivano dall’egoismo dei privati nel massimizzare i profitti a breve termine, nonostante ciò possa costituire un “azzardo morale” (moral hazard) a lungo termine. Privatizzare i profitti e socializzare le perdite, si sente spesso rimproverare al nostro capitalismo. Non si può certo negare che negli ultimi anni sia emersa un’inclinazione all’azzardo morale di alcune imprese private, soprattutto nel settore bancario. È però importante osservare che questo settore è dominato da imprese con un azionariato diffuso, dove tipicamente emergono problemi di dissociazione fra proprietà e gestione, che gli anglosassoni chiamano problemi di “agenzia”, o più colloquialmente di assenza di “skin in the game”.
In queste imprese l’assenza di condivisione del rischio d’impresa da parte dei gestori non è molto diversa da quella delle imprese pubbliche, tant’è vero che le chiamiamo anche noi con il loro nome inglese “public companies”; quando poi i gestori di queste società sono l’espressione di enti pubblici o para-pubblici (come le fondazioni bancarie) e/o sono talmente grandi e ramificate da rischiare di trascinare nel proprio dissesto anche quello di un intero sistema economico e sociale (da cui l’espressione, sempre inglese, “too big to fail”) il loro profilo coincide sostanzialmente con quello di un’impresa pubblica.
A prescindere da questa necessaria distinzione, bisognerebbe poi chiedersi se la gestione pubblica delle imprese consenta davvero di prevenire l’imprudenza che deriva dall’egoismo dei privati.
Sul piano dei risultati economici e gestionali il confronto fra pubblico e privato non è facile, perché come si è visto le imprese private sono soggette alla “distruzione creatrice” della concorrenza e possono quindi fallire, mentre quelle pubbliche no; le loro perdite sono coperte con denaro dei contribuenti. In altri casi i bilanci delle imprese pubbliche si reggono su sussidi di vario genere: da quelli diretti, come quelli dei trasporti pubblici locali o dei servizi sanitari, a quelli indiretti, come quelli delle rendite monopolistiche o degli acquisti a condizioni non di mercato da parte dell’ente pubblico che le controlla. In generale si può riscontrare che i parametri di produttività delle imprese pubbliche sono largamente al di sotto di quelli delle imprese private; come pure è capitato che il sostegno (diretto o indiretto) di imprese pubbliche abbia causato il dissesto di comuni, o addirittura di intere regioni.
Quindi l’equazione fra gestione pubblica e prudenza gestionale non sembra avere alcun riscontro nella realtà; semmai le imprese pubbliche si trovano più esposte ai problemi di “agenzia” già evidenziati nelle “public companies”. Le imprese pubbliche non sono nemmeno immuni all’egoismo individuale. Ovviamente. L’egoismo fa parte della natura umana ed è – se non per i politici e per i moralisti, almeno per gli scienziati e per gli economisti – funzionale alla prosperità della specie e della civiltà umana. In proposito è memorabile la risposta di Milton Friedman a una domanda di Phil Donahue in una famosa intervista televisiva:
“Conosce una società che non si basi sull’egoismo? Cos’è poi l’egoismo? Ovviamente nessuno di noi è egoista, solo ‘qualcun altro’ è egoista. Il mondo funziona grazie a persone che perseguono i propri interessi individuali. Le grandi conquiste dell’umanità non provengono da uffici governativi. Einstein non ha elaborato la sua teoria su richiesta di un burocrate. Henry Ford non ha rivoluzionato l’industria automobilistica in quel modo. Gli unici casi in cui le masse sono riuscite a liberarsi dal tipo di povertà estrema di cui lei parla, gli unici casi registrati dalla storia, sono quelli in cui c’erano il capitalismo e il libero mercato. Se lei vuole sapere dove le masse stanno peggio, sono esattamente quei tipi di società che si distaccano da questo modello. Quindi l’evidenza storica è di chiarezza cristallina”.
Piuttosto che stigmatizzare l’egoismo umano converrebbe quindi farcene una ragione e cercare di indirizzarlo allineandolo all’interesse collettivo, come fanno i legislatori americani da più di un secolo.
Il confronto fra pubblico e privato è più facile sul piano dei costi sociali, dato che l’imprudenza nella gestione può danneggiare non solo l’impresa, ma anche i terzi. Tuttavia anche in questo ambito non risulta che le imprese pubbliche abbiano causato danni minori di quelle private. I principali disastri stradali, ferroviari e aeronautici del nostro paese derivano quasi sempre da responsabilità di enti o imprese pubbliche. Né la nazionalizzazione della Società Adriatica di Elettricità impedì la tragedia del Vajont, che resta a oggi il maggior disastro industriale della nostra storia repubblicana. Inoltre un’impresa privata risponde dei danni causati al pubblico con il suo patrimonio, mentre il pubblico risponde dei danni causati al pubblico con… il patrimonio pubblico: un liberale anarchico non faticherebbe a vederci una licenza a danneggiare impunemente, e senza l’espediente dell’agente segreto.
Alcuni “fallimenti del mercato” (market failures) sono tuttavia riconosciuti anche dai più convinti liberali. Fra questi rientrano le “esternalità” negative dell’impresa (come l’inquinamento, i danni sul lavoro e le malattie professionali) e le rendite da monopolio. Cosa si può fare per prevenirli, o quantomeno correggerli? Per gran parte del secolo scorso si è ritenuto che nei monopoli naturali la gestione pubblica fosse preferibile a quella privata; tuttavia esisteva un dibattito (ancora in corso) su cosa si dovesse intendere esattamente per “monopolio naturale”.
In Europa si tentò di estendere molto questa nozione, tanto da farvi rientrare settori che negli Stati Uniti erano dominati da privati, come quello televisivo, telefonico, aeronautico, elettrico e ferroviario. Non è questa la sede per approfondire un tema molto interessante e che meriterebbe una trattazione separata, che peraltro resterebbe senza risposte definitive. Ciò che qui interessa è che l’assenza del modello di gestione privato non tardò a farsi sentire anche in settori ritenuti pubblici per “vocazione”. L’egoismo privato si era infatti rivelato indispensabile per portare efficienza e competitività nelle imprese; al tempo stesso nemmeno era auspicabile che i privati potessero trarre vantaggi parassitari dalle rendite di monopolio.
Fu così che verso la fine del secolo scorso si pensò di innestare la “mano invisibile” del mercato anche nei monopoli naturali, essenzialmente agendo in due direzioni: la prima, scorporando le parti dei monopoli naturali che imponevano una gestione unitaria; la seconda consentendo a più imprese (private o pubbliche) di accedere ai monopoli così scorporati e di competere in regime di libero mercato. A dire il vero questo innesto avvenne pure con altre modalità, tra cui semplici privatizzazioni tout court; ma ciò che qui preme evidenziare è che ci si rese conto che l’energia “naturale” (e pure “rinnovabile”) di quei “cattivoni” dei privati potesse essere sfruttata anche per migliorare la gestione dei monopoli naturali. È solo il caso di osservare che anche privatizzazioni mal realizzate si sono rivelate vantaggiose per i cittadini, non foss’altro che per la recisione di quel cordone ombelicale che garantiva alle imprese pubbliche l’immunità dalle conseguenze di una cattiva gestione.
Cosa resta da fare al settore pubblico dopo che si è liberato dalla gestione delle sue imprese? Semplicemente un potere immenso, ben più assoluto di quello di un proprietario sui suoi beni: quello di stabilire le regole, fare il vigile, e pure l’arbitro, del “gioco” del mercato. Il vero problema, semmai, è che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” e che “la potenza è nulla senza controllo”. E non si può dire che il settore pubblico abbia dimostrato un grande senso di responsabilità, né capacità di controllo, sul suo immenso potere.
Restando nell’ambito della vigilanza, che è solo uno degli immensi poteri del settore pubblico, affiorano ovunque problemi davvero macroscopici: rapporti “incestuosi” fra vigilanti e vigilati, giustizia che non dà certezza al diritto, processi burocratici farraginosi, inesperienza dei funzionari pubblici. Niente di nuovo, ovviamente, ma se il settore pubblico si occupasse di amministrare in modo più efficiente ed efficace i suoi poteri, piuttosto che gestire le imprese, potrebbe tutelare meglio non solo gli interessi pubblici, ma anche quelli privati.
Rendere più efficiente la macchina dello Stato è certamente un compito immenso, e pure ingrato. Non è divertente individuare risparmi, semplificare organigrammi e ottimizzare procedure nel groviglio di regole e tabelle del settore pubblico: occorre pazienza, dedizione, lungimiranza e senso dello Stato; tutte cose dove è difficile riscuotere un “dividendo elettorale”, soprattutto nel nostro paese sensibile al fascino di “eroi, santi, poeti e navigatori”. Per farlo bisognerebbe anche selezionare e formare risorse con le competenze necessarie, eventualmente superando gli atavici pregiudizi verso il settore privato quando le competenze manchino nel settore pubblico e istituendo scuole di formazione come quelle francesi.
Una vera montagna da scalare, dove anche i più diligenti e scrupolosi rischierebbero di scoraggiarsi dinanzi alla quantità di ostacoli e incidenti di percorso; tuttavia per non perdersi d’animo potrebbe essere utile ispirarsi ancora una volta alla “mano invisibile” del mercato, che si riduce nel trarre un vantaggio personale da un buon lavoro, ma anche uno svantaggio da un lavoro malfatto. Se qualcosa di analogo fosse introdotto nel settore pubblico, potremmo liberare l’energia spontanea degli individui sia nelle imprese sia nello Stato e dire “questa volta è diverso”.