categoria: Draghi e gnomi
Perché in Italia non nascono Facebook o Amazon? Anche per il bancocentrismo
Coautore di questo post è Sebastiano Nardin, studente del terzo anno della Facoltà di Economia presso la Liuc-Università Cattaneo –
Un libro meraviglioso che gli italiani dovrebbero leggere è “Il provinciale” di Giorgio Bocca. Un affresco sul ‘900 di uno dei grandi del giornalismo italiano. Il titolo dice tutto, l’italiano nella stragrande maggioranza dei casi è un provinciale, attento al suo territorio – “L’Italia è un Paese di paesi”, diceva spesso Carlo Azeglio Ciampi -, alle sue conventicole (vi ricordate Sergio Castellitto in “Caterina va in città”?), si guarda i piedi ma perde di vista, spesso, ciò che succede nel mondo.
Allora, siccome i contributori di “Econopoly” sono dei “bastian contrari”, prendiamoci una licenza e diamo un’occhiata al sistema bancario americano.
Le grandi banche americane continuano la loro crescita: Goldman Sachs ha realizzato dal 2010 ad oggi un +75%, Morgan Stanley +257%, Bank of America +100%, JP Morgan +183%, Wells Fargo & Company +80.5%. Queste ultime continuano a incrementare i loro profitti avvicinandosi sempre più ai traguardi toccati nel periodo precedente al disastro di Lehman Brothers, anno 2008, anni di ‘euforia irrazionale’, espressione coniata da Alan Greenspan (presidente della Federal Reserve dal 1987 al 2006) – poi titolo di un volume del premio Nobel per l’economia nel 2013 Robert Shiller.
Greenspan utilizza l’espressione “irrazionale” per descrivere il comportamento degli agenti economici sul mercato, i quali adottano strategie guidate dall’effetto gregge – herd effect – invece di seguire i parametri fondamentali delle società quotate. I profitti toccati da alcune delle più grandi banche americane nel secondo trimestre del 2018 sono stati i seguenti: JP Morgan 28 miliardi, Goldman Sachs 10 miliardi, Morgan Stanley 8 miliardi.
In Italia invece è tutta un’altra storia: UniCredit dal 2010 ad oggi in Borsa ha visto ridurre la propria capitalizzazione del 74%, Intesa Sanpaolo del 23%, con profitti rispettivamente di 1,5 miliardi e 4,8 miliardi (fonte Bloomberg).
Questi risultati fanno riflettere: non è che il modello mercatocentrico anglosassone sia migliore di quello bancocentrico europeo? Le banche americane, essendo maggiormente incentrate sul mercato, generano gran parte dei profitti da attività di trading e investment banking; in Italia le banche rimangono concentrate sul business depositi/impieghi e, per chi meritoriamente ce la fa, in parte sempre maggiore – soprattutto per Intesa Sanpaolo – sul risparmio gestito.
Nel nostro Paese la maggior parte dei finanziamenti passa dal mondo bancario. Soprattutto in periodi di instabilità o successivi a una crisi, un mercato bancocentrico rende più difficoltosa la ripresa dell’economia. Il relativo aumento del costo del debito genera una perdita di valore dei titoli statali tenuti in pancia dalle banche. Siccome gli istituti bancari utilizzano il mark to market sul trading book – la valutazione dei titoli deve essere fatta al prezzo di mercato – il calo dei prezzi dei titoli governativi diminuisce il valore dell’attivo (ne ha parlato con acutezza Francesco Lenzi parlando del “doop loop”).
Il mercato azionario americano risulta essere la destinazione finale degli investimenti dei fondi di private equity, i quali, grazie alla forza di assorbimento del mercato, riescono a uscire facimente dai propri investimenti tramite collocamenti in Borsa, alias Ipo (Initial public offering).
Schiller spiega come gli americani abbiano nel loro Dna una grande fiducia nel futuro (come gli italiani, eh!). Se a questo sommiamo l’avvento di Internet e quindi di un mezzo di comunicazione che permette il flusso costante di informazione finanziaria, i baby boomers americani, ovvero i figli della grande crescita demografica dopo la grande recessione degli anni ’30 (non ricordando il “Great Crash” del ’29, sono più propensi a investire in Borsa), vediamo come anche il piccolo risparmiatore abbia delle azioni in portafoglio.
Shiller descrive il cambiamento dei piani pensionistici a prestazione definita in piani pensionistici a contribuzione definita 401(k) del 1981. Attraverso questi piani le persone erano costrette a fare i conti con il mercato azionario, visto che i loro contributi confluivano sul mercato azionario (oltre che su quello obbligazionario). Oltre e grazie a questo cambiamento dal 1982 al 1998 i fondi comuni d’investimento passarono da 340 a 3.513; se nel 1982 6,2 milioni di americani possedevano quote di fondi, una ogni sei famiglie, nel 1998 ben 119,6 milioni di americani detenevano quote di fondi. Ai giorni nostri il mercato americano risulta essere molto più sviluppato. Oggi infatti oltre ai fondi comuni, vengono comprati dai risparmiatori gli ETF – Exchange Traded Funds – meno costosi.
Sul New York Times la settimana scorsa è stata citata una ricerca dell’economista Edward Wolff, docente alla New York University, che segnala il leggero calo della partecipazione degli investitori medi al rialzo del mercato. Dal 9 marzo 2009 al 22 agosto 2018 l’indice Standard & Poor’s 500 è salito del 329% (senza dividendi) raggiungendo i nuovi massimi storici (a titolo informativo il massimo del mercato azionario italiano risale al maggio 2007, 44.364 indice FTSE-MIB, oggi siamo intorno a 20.700). Secondo Wolff il 10% della popolazione Usa possiede l’84% del valore di Borsa, contro l’81% del 1987. La distribuzione del reddito e della ricchezza prosegue nel suo trend.
In Italia invece il mercato azionario non ha avuto questo sviluppo. L’Italia all’inizio del ‘900 è un paese agricolo. Oggi siamo nel G8, tra i maggiori paesi industrializzati, ma la testa di molti italiani rimane antropologicamente legata alla terra, alla “roba” di verghiana memoria. La finanza è vista lontana, distante, un mondo sconosciuto ai più.
Dopo il “miracolo economico”, gli anni Settanta sono caratterizzati da un’inflazione galoppante che arriva a a toccare il 20% nel 1976. Con un’inflazione a questi livelli l’italiano vede confermate le sue idee sulla forza difensiva degli immobili. I beni immobiliari vengono preferiti all’azionario e di conseguenza al mercato, in quanto percepiti come uno scudo dall’inflazione, rivalutandosi allo svalutarsi della moneta.
La scarsa propensione verso il mercato viene rimarcata in Italia sia nel 2000, con l’esplosione della bolla di Internet, sia nel 2011, con la crisi del debito UE. Questi anni di forti cali degli indici azionari fanno percepire al risparmiatore italiano che la Borsa è un ambiente pericoloso, aleatorio, tutto il contrario dell’immobiliare, considerato solido, visibile, sicuro. Non si considera però il fatto che l’immobile sia un bene tipicamente illiquido e un bene molto costoso se si prendono in considerazione (chi lo fa?) costi di manutenzione, spese di condominio e tassazione sulla proprietà e sui trasferimenti. Aspetti questi ultimi che dovrebbero interrogare sulla reale convenienza a detenere beni immobiliari rispetto a quelli mobiliari.
Il Premio Nobel Daniel Kahneman, in “Pensieri lenti e veloci”, spiega con chiarezza come funziona il nostro cervello, che non tollera le perdite. Gli studiosi comportamentalisti parlano di avversione alle perdite: le perdite di un certo ammontare di denaro vengono ricordate maggiormente (3 volte circa) rispetto alla vincita dello stesso ammontare. Forse è per questo che si riscontra avversione per l’azionario: si parla spesso delle sue cadute ma raramente di quelle del settore immobiliare.
Questa avversione al mercato si riflette anche nei finanziamenti alle imprese: se una media impresa americana si finanzia tipicamente sul mercato, una pari italiana è obbligata a recarsi in banca. Il mercato obbligazionario corporate per le Pmi praticamente non esiste. La banca, spesso, per concedere il prestito, spesso chiede garanzie. E fa bene, perché la banca commerciale presta, a leva, i denari dei depositanti.
Il tema vero, ne abbiamo già parlato, è il merito di credito. In mancanza di ciò, si arriva facile facile alla cattiva gestione. L’analisi del merito di credito è infatti uno step fondamentale per l’attività bancaria, se questa non viene fatta le conseguenze possono risultare devastanti. La mancata analisi seria di merito di credito porta alla genesi dei cosiddetti crediti deteriorati (l’impresa non sarà in grado di ripagare il prestito), questo diminuirà il rapporto aureo di Basilea, riducendo lo spazio di chi magari si meriterebbe un finanziamento.
I banchieri che si comportano in malo modo dovrebbero pagare. E questo non succede quasi mai. Il banchiere Anton Dante Coda, presidente dell’Istituto San Paolo di Torino nel 1946, liberale e antifascista, ricordò un ricevimento al Quirinale con il presidente Luigi Einaudi che gli ribadì come «le banche devono dare solo a chi può restituire. Se no gli amministratori, cedendo roba d’altri, commettono un furto e devono andare in galera».
La debolezza nell’analisi di merito di credito porta al quel processo noto come selezione avversa, ovvero una società poco raccomandabile passa in rassegna tutte le banche fino a quando non ne trova una disposta a finanziarla. A questo punto non è la banca che sceglie chi finanziare ma è l’azienda che sceglie la banca. Forse è per questo che il sistema italiano è cosi immobile.
In un sistema mercatocentrico questo avviene più raramente. Il mercato è infatti formato da migliaia di investitori, analisti e fondi che generano un’opinione comune, che nel lungo periodo rispecchia il valore reale dell’azienda. Come scrive Friedrich A. Von Hayek in “Competizione e conoscenza”: “L’economia nel suo modo di argomentare si avvicina più di ogni altra disciplina a dare una risposta all’interrogativo centrale di tutte le scienze sociali; e cioè: in che modo la combinazione di frammenti di conoscenza, di cui dispongono individui diversi, può portare a risultati che, per poter essere conseguiti consapevolmente, richiederebbero una conoscenza da parte della persona chiamata a prendere le decisioni che in realtà nessuna mente potrà mai possedere?”
Aziende come Facebook, Amazon, Netflix non nascono in Italia anche a causa dell’arretratezza del nostro sistema finanziario, tutto dominato dalle banche. Tipicamente in America queste aziende vengono finanziate dal mercato: fondi di private equity e venture capitalist, i quali sanno di poter contare su un enorme mercato dei capitali, una volta che la società è pronta per essere quotata. Le risorse incassate con la quotazione vengono rimesse in circolo con nuove start-up. E l’America va. Indipendentemente da chi governa, pro-tempore.
Twitter @beniapiccone