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Ilva, lo straordinario che diventa ordinario e l’incertezza del diritto
Poco più di cinque anni fa, con il Decreto legge n. 61/2013, il Governo Letta decise il commissariamento dell’Ilva. Nello stesso decreto, si prevedeva una durata massima del commissariamento di 36 mesi. Nell’ordine di tempo, l’ultima proroga disposta è al 15 settembre 2018. Siamo già oltre i 24 mesi successivi alla scadenza inizialmente prefissata. La straordinarietà è divenuta ordinaria.
Negli anni del commissariamento –dal 2015 in amministrazione straordinaria- il fatturato di Ilva è crollato, la produzione si è dimezzata, i clienti sono scappati e continuano a farlo. Secondo le slide presentate dai commissari in audizione al Senato, a settembre 2018 le casse di Ilva saranno vuote. Le domande di insinuazione al passivo sono circa 17.500, per un valore di 6,6 miliardi di euro. Il tutto, con gli investimenti ambientali pressoché fermi al palo, salvo quanto avviato e raggiunto dai commissari grazie ai prestiti pubblici (praticamente a fondo perduto).
La lista dei contenziosi tende all’infinito. Risultano interessati la Corte d’Assise di Taranto, il Tribunale di Milano, i TAR del Lazio e della Puglia, la Corte costituzionale, la Corte di giustizia UE di Lussemburgo e la Corte dei diritti umani di Strasburgo.
Sembra una storia dell’orrore, ma -molto più semplicemente- sintetizza alcuni dei principali mali che affliggono il nostro sistema Paese. Da qualsiasi punto di osservazione la si voglia inquadrare (salute, lavoro, investimenti ecc.), logica e buon senso dovrebbero spingere verso la fine dello status quo nel più breve tempo possibile. Ma quanto sta accadendo va nella direzione opposta.
Il contratto firmato in data 29 giugno 2017 da Am InvestCo, risultata aggiudicataria della procedura di gara avviata nel 2016 (“AM” nel prosieguo), e Ilva, prevedeva una serie di condizioni sospensive all’esecuzione dello stesso, come ad esempio il via libera della Commissione europea all’acquisizione, ottenuto nel maggio 2018. Ad oggi, l’unica condizione sospensiva rimasta riguarda l’assenza di un accordo sindacale (NB: non vincolante per AM). Tuttavia, nonostante gli step propedeutici all’acquisizione siano quasi interamente completati, la sensazione è quella di essere ancora ben lontani dalla conclusione dell’operazione, non per mero pessimismo, ma per il comportamento temporeggiante del Governo. Se in precedenza le resistenze -istituzionali- alla cessione di Ilva ad AM provenivano solo dagli enti locali, il cambio di Esecutivo ha comportato un decisivo aumento di scetticismo nei confronti di AM. Pesa soprattutto la storia politica del Movimento 5 Stelle, che a più riprese in passato (ma anche di recente) ha mostrato di considerare seriamente nel vaglio delle ipotesi l’opzione della chiusura.
E tutto ciò sta incidendo sulle trattative. Da un lato il Ministero dello Sviluppo Economico ha avviato -lo scorso 25 luglio- un procedimento amministrativo per l’annullamento d’ufficio del decreto di aggiudicazione in favore di AM emanato dallo stesso ministero. Dall’altro, procede parallelamente chiedendo nuovi impegni e garanzie ad AM, che il 30 luglio ha -conseguentemente- presentato un addendum al piano industriale.
Con riferimento alla gara, il procedimento amministrativo fa seguito al parere rilasciato -su richiesta del MISE- dall’Anac, con il quale l’Autorità anticorruzione ha evidenziato delle criticità nella procedura (principalmente legate all’estensione del termine per completare il piano ambientale), senza però potersi assumere alcuna responsabilità sull’eventuale annullamento della gara per difetto di competenza.
Ma davvero si vorrà annullare d’ufficio una gara avviata nel 2016, aggiudicata nel 2017 e pronta per la fase esecutiva nel 2018? E per fare cosa? Rifare la stessa daccapo o avviare l’Ilva verso la fine della sua storia? Come ha scritto Paolo Bricco su Il Sole 24 Ore, in caso di annullamento «(…) entreremo in terra incognita. Dove non sapremo che cosa accadrà. Se qualcun altro vorrà rilevare l’Ilva. O se l’Ilva – entrando in un coma irreversibile – semplicemente chiuderà”.
Nell’ipotesi di mancato annullamento d’ufficio invece, i contenziosi, le trattative con i sindacati e le richieste di migliorie dell’offerta, potrebbero anche indurre AM ad abbandonare l’operazione. Si consideri che la sfida di AM è tutt’altro che banale, perché la stessa si è impegnata a mantenere la produzione sotto i 6 milioni (tonnellate per anno) fino all’esecuzione del piano ambientale di cui al DPCM 29 settembre 2017 (da concludere entro il termine ultimo del 2023). Nel 2011 la produzione era superiore a 8 milioni, mentre la capacità produttiva è superiore a 11.
L’annullamento della gara o il ritiro di AM comporterebbe la perdita del valore dell’offerta di acquisto (1,8 miliardi di euro), nonché dell’esecuzione di investimenti ambientali e tecnici per un valore di 2,4 miliardi di euro. Senza contare le perdite per le migliaia di imprese fornitrici che sperano ancora di recuperare parte del loro credito in tempi ragionevoli. Trovare un nuovo acquirente non sarebbe semplice, atteso che Acciai Italia (in lizza finale per l’aggiudicazione insieme ad AM) si è nel frattempo disciolta. E che fine farebbero i dipendenti? AM arriverebbe a mantenere, fino al 2024, 10 mila dipendenti, contro i circa 14 mila attuali.
A prescindere da cosa farà AM, che ha le spalle talmente larghe da poter prendere qualsiasi decisione, se si osserva la questione dai punti di vista maggiormente sensibili –salute/ambiente ed occupazione- si evince che da un lato c’è AM, che si impegna a garantire entro il 2023 una riduzione delle emissioni di CO2 del 15% per tonnellata di acciaio liquido, una riduzione delle polveri del 30% e delle diossine del 50%, con superamento dell’orrendo problema dei Wind Days entro il 2020, nonché a mantenere 10 mila dipendenti per 6 anni. Chiaramente si tratta di impegni non risolutivi dei gravissimi problemi di inquinamento che interessano l’area, mentre se ne creeranno altri a causa dei 4 mila esuberi. Dall’altro lato però, non è dato capire cosa ci sia. Si parla di riconversioni al gas, di acciaio pulito, ma in realtà l’unica alternativa credibile appare la chiusura degli altoforni e l’intera bonifica dell’area, riconvertita in qualcos’altro.
In ultimo, non si può dimenticare che l’offerta di AM, buona o cattiva che sia, è stata presentata all’interno di una procedura complessa gestita dagli organi competenti, che si è conclusa con decreto di aggiudicazione del MISE. Se volessimo, in maniera forzata, estrapolare riflessioni generali da una situazione particolare, dovremmo purtroppo constatare che l’Italia non può permettersi passi falsi in materia di certezza del diritto, perché scoraggiano investitori italiani e stranieri. Quando l’amministrazione pubblica fissa delle regole, ha il dovere di garantirne il rispetto e l’applicazione, a prescindere dal gioco politico delle parti. In caso contrario, si rompe quel patto di fiducia pubblico-privato che mina la credibilità e la crescita del Paese.
La situazione appare altamente preoccupante da un punto di vista sanitario, occupazionale, sociale ed economico. Paradossalmente però, il Ministro Di Maio ha dichiarato di non avere fretta e di non avere intenzione di regalare Ilva al “primo che passa”. Ma dato che Arcelor Mittal è il primo produttore al mondo di acciaio, chi sarebbe nella vicenda il “primo che passa”?
Twitter @frabruno88